FashionAddictions
Il romanzo “I love shopping” di Sophie Kinsella, unitamente al precedente “Fashion Victim” di Sam Baker, sono stati i pionieri di una letteratura popolare che ha trattato in maniera ironica e a tratti inverosimile uno dei fenomeni più diffusi e complessi della società attuale, la fashion addiction. Si parla di voglia di differenziarsi, si parla di frenesia consumistica, ma ciò che preoccupa seriamente, è che si parli di patologia. Cos’è a questo punto la dipendenza dalla moda e dallo shopping? È possibile che due entità così sfuggevoli e di superficie possano generare nell’individuo comportamenti incontrollabili e indecifrabili? Queste sono solo alcune delle domande che ci si può porre in relazione a tale fenomeno e sono solo alcuni dei quesiti che il convegno “Fashion Addictions”, tenutosi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore in data 7 maggio 2010, ha tentato con successo di risolvere.
L’evento è stato organizzato dal Centro per lo studio della moda e della produzione culturale Modacult, grazie al cui direttore Laura Bovone, docente ordinario di Sociologia della Comunicazione, è stato possibile far tesoro degli interventi sul tema di tre principali studiosi europei, Ana Marta Gonzalez, Joanne Finkelstein ed Efrat Tseëlon. I tre interventi hanno analizzato il fenomeno in esame da differenti prospettive, conformemente al background accademico delle relatrici, che spazia dalla filosofia morale alla sociologia, per finire alle teorie sulla moda. Fornire un’analisi dettagliata di un tema così complesso ed arrivare a delle risposte esaustive è un compito quanto mai arduo, soprattutto se si prendono in considerazione le svariate sfaccettature sociali, culturali ed economiche dell’argomento. Perciò in questa sede tenteremo di ripercorrere i contributi degli studiosi precedentemente citati, cercando di fornire una visione d’insieme abbastanza chiara, seppur con il rischio di rimanere ad uno stadio superficiale di analisi.
Il primo passo per arrivare a capire quali siano le motivazioni alla base di una condotta distorta e talvolta perversa del consumatore è prendere in considerazione l’associazione fra immagine e identità. Nel corso degli ultimi trent’anni del secolo scorso, la letteratura popolare di moda si è soffermata in maniera crescente sulla funzione sociale dell’abito, considerando quest’ultimo un mezzo attraverso il quale l’individuo manifesta alla collettività il proprio status e la propria estrazione sociale. Fin qui nulla di nuovo, né di preoccupante, se pensiamo ai contributi di imponenti sociologi come Veblen e Simmel, ideatori di alcune delle principali teorie relative ai fenomeni della moda e del costume. Nel momento in cui l’immagine però diventa fonte di conoscenza introspettiva e viene giudicata come piena espressione del carattere e della personalità individuali, allora l’apparenza e la superficie diventano sostanza e plasmano irrimediabilmente il modo in cui l’uomo guarda a se stesso e al prossimo. E soprattutto il modo in cui l’io si relaziona alla collettività, vedendo nell’attenzione di quest’ultima la condicio sine qua non per la legittimazione di se stesso come individuo. Without you I’m nothing, with you I don’t know”¦spunto di riflessione e affermazione chiave dell’intervento di Joanne Finkelstein.
L’identità risulta dunque essere uno dei concetti chiave per una salda comprensione del fenomeno delle dipendenze, soprattutto se considerata alla luce dei drastici cambiamenti intervenuti a plasmare la società post-moderna, la società dei consumi per eccellenza. Ed è proprio nella trasformazione culturale subita dalla società che affondano le radici dei problemi identitari dell’uomo contemporaneo, disorientato rispetto all’assoluta mancanza di entità superiori nelle quali cercare stabili significati.
Allo stato attuale, l’uomo si trova a vivere lo stadio estetico della propria esistenza, nell’ambito di un contesto sociale definito emozionale e caratterizzato da una cultura sperimentale proiettata verso l’immediata gratificazione. Una cultura dunque che valorizza e promuove la ricerca di nuove emozioni e nuove esperienze come il solo modo per fuggire dalla noia e dal vuoto circostanti. Una cultura che considera il tempo un’entità talmente sfuggente da dover essere afferrata e vissuta incondizionatamente, per non correre il rischio di perdere un’occasione che non si ripeterà. E a questo punto il problema non è la gestione o l’espressione delle emozioni, ma la percezione della vita ordinaria, considerata fonte inesauribile di noia e tedio e scandita da due principali momenti: il lavoro e il tempo libero. Se il primo è inevitabile per riuscire a sopravvivere e quindi sfugge alle logiche della vacuità di cui sopra, il secondo diventa l’unica occasione per vivere momenti unici, tentando di dare un senso alla propria momentanea esistenza. E come vivere in maniera totalizzante tali sprazzi di tempo? Consumando, o facendo uso di sostanze “liberatrici”, o entrambe le cose, data la vicendevole interscambiabilità. Di conseguenza l’individuo, immerso in una società che ha fatto della produttività la sua stella polare, finisce per rimanere vittima dei meccanismi di consumo anche quando pensa di esserne fuori, data la momentanea lontananza dal simbolo per eccellenza del sistema produttivo che è il lavoro. Ed è a tal proposito che Bauman parla della sostituzione dell’eternità da parte dell’infinità. Se nella società pre-moderna l’uomo era spinto all’azione dalla promessa dell’eternità, intesa come fonte di felicità, che lo spingeva al sacrificio in prospettiva di una gratificazione durevole e totalizzante, ora l’individuo vuole sentirsi appagato istantaneamente, non è disposto ad immolarsi e a pazientare per una giusta causa e la società gli mette a disposizione la soluzione perfetta. Consumare per poter essere felici, consumare per sentirsi appagati, consumare per dare un senso ad una vita che apparentemente non ne ha. E anche nel caso in cui tutto questo non fosse sufficiente, “ci sono le droghe a promettere un passo, anche breve, verso l’eternità” (Z. Bauman, Modernità Liquida).
Ed è da tali assunti che bisogna partire per riuscire a comprendere uno dei tratti significativi della nostra società, ovvero la “normalizzazione” delle più svariate dipendenze. Si è giunti a considerare i comportamenti compulsivi come parte integrante di un normale stile di vita, condotte comunemente accettate e ritenute la panacea alle tensioni strutturali della società post-moderna.