Futurista sar lei!
Le sfilate di febbraio hanno gà dato il loro contributo al centenario del Futurismo, come abbiamo avuto modo di raccontare nell’articolo “La collezione futurista di Laura Biagiotti”. Ma le celebrazioni continuano e, sempre sulla scia delle interpretazioni della stilista romana, offriamo un altro contributo (oltre quello La modernità dei Futuristi e la Moda) al tema Futurismo e Moda, uscito dalla penna di Sonia Sbolzani.
“Io sono la Moda, tua sorella” rivela la Moda a Madama Morte, aggiungendo: “Non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla caducità?”. Così scriveva nientemeno che Giacomo Leopardi nelle “Operette morali” (1824). Effimera la moda lo è, ma nel suo tradursi da pura creatività a prodotto artigianale o industriale è quanto mai concreta. Del resto, è un fenomeno dicotomico alla massima potenza, tesa com’è da un lato all’esclusività e dall’altro alla diffusione, senza possibilità di risoluzione del problema.
Nella sua evoluzione la moda è giunta a noi forte della consapevolezza che non può rispondere solo a necessità, ma deve soprattutto alimentare un sogno ed un desiderio di autoaffermazione identitario insito nell’essere umano, attraverso continue innovazioni. Oggi queste riguardano prevalentemente la scienza, la chimica o l’ingegneria, piuttosto che la forma. Quasi tutte le novità concettuali odierne sono state elaborate dalle avanguardie e dai movimenti di inizio ‘900, dal modernismo futurista alla scomposizione figurativa dei costruttivisti russi, volti non solo a stabilire nuove strutture, ma anche una nuova morale.
Dato che il futurismo è stato un movimento fortemente italiano e che proprio quest’anno ricorre il centesimo anniversario di pubblicazione del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti sul “Figaro”, di moda futurista voglio qui parlare.
La signora vestita alla futurista ben merita l’appellativo di “donna tendaggio”, lanciata dall’ingegnosa sarta Rosa Genoni, la quale concepisce uno stile tutto penne e piume, velluti, veli e sete, che già annunciano i calzoni molli e sbuffanti e gli abiti larghi di spalle e stretti alle caviglie, seguiti poi da tailleur redingote e con giacca. Comunque il Futurismo fu per alcune donne anche un modo per superare gli stilemi della classica espressività muliebre ed affermare una nuova coscienza femminile, più orientata all’indipendenza, nonché una sorta di emancipazione erotica del gentil sesso, tanto che agli occhi dei benpensanti spesso la qualifica di donna futurista equivaleva a quella di prostituta (valga l’esempio dell’audace Speranza De Ortalis, ferrarese, che arrivò a schiaffeggiare un ufficiale dell’esercito per l’insulto rivoltole in tal senso). Del resto, il Futurismo stesso nei suoi proclami più rozzi postulava il “disprezzo della donna”.
Per la moda maschile, è opportuno un distinguo tra quanto teorizzato e quanto messo in pratica. A parte il ricchissimo Marinetti, che vestiva con somma eleganza e ricercatezza (un vero dandy, si direbbe), gli altri futuristi, ritratto di un’Italietta con velleità piccolo-borghesi, indossavano abiti modesti e i più poveri sceglievano addirittura un look “all’anarchica”, con mantello e cappello di feltro, abito di velluto, tute operaie e berretto da muratore. Qualcuno portava la “cravatta futurista” in metallo.
Ma il poeta “maledetto” Vladimir Majakovskji riuscì a stupire perfino Marinetti comparendo al suo cospetto con una camicia completamente gialla (simbolo del nuovo mondo rispetto alle convenzioni borghesi) e, in seguito, con una rossa (imitato poi da artisti come Depero e Balla, desiderosi di sottrarre alla “servitù del bianco” quell’indumento così virile: era nientemeno che Goethe ad affermare che “in ogni camicia c’è un uomo”).
Anche nella moda, quindi, l’intento è sempre quello di provocare, “fare avanguardia”, in nome di un ideale di tempo velocistico e militarista, a cui devono corrispondere tagli asimmetrici e colori aggressivi, con possibilità di variazioni estemporanee secondo le circostanze: “modificanti guerreschi o festosi”, “bottoni pneumatici”, “compenetrazioni iridescenti” in cravatte vivacizzate da lampadine elettriche (come si trova stampato nel Manifesto sul vestito antineutrale del 1914, recante disegni dell’artista Giacomo Balla). Per fortuna ci pensarono alcuni sommi sarti, in primis Domenico Caraceni, a “liberare” l’abito maschile sul piano pratico ed estetico, mentre su altri fronti l’esaltazione maniacale del meccanicismo portava a concepire “vestiti ad apparizione”, quasi da pagliaccio.
Lo stesso Balla, intanto, studiava le giacche, i cappelli, le scarpe, i panciotti (“festosi e aggressivi”), le stoffe, con motivi di “linee forza e compenetrazioni dinamiche”. Per lui il vestito doveva essere “semplice e comodo, facile da mettere e da togliere, che si presti a puntare il fucile, guadare i fiumi e lanciarsi a nuoto”. La via per lo stile fascista era spianata, così, anche nel campo dell’abbigliamento.
“L’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù benché tu vada a quest’effetto per una strada e io per un’altra”: così parlò ancora la Moda alla Morte secondo il poeta di Recanati.
Qualcuno oggi pensa che la moda abbia già inventato tutto e si limiti ad inseguire consensi, finendo per produrre grandi omologazioni. L’unica reazione che alcuni osano è recuperare cose relegate alla periferia del gusto fino a qualche tempo fa, passando magari dal total black da gallerista newyorkese alle geometrie variopinte e frastagliate del vintage.
Qui, almeno nel fashion system, urge un marinettiano “pic-pac-pum-tumb”!