I “Diversamente-Preziosi” in mostra
E’ proprio il caso di dirlo!
E’ stato di nuovo un tuffo nella bellezza, entrare nel magico e caleidoscopico mondo de “L’Arabesque”.
Non più, questa volta, una sfilata immobile di abiti; presenti certamente ma, come dire, defilati un poco per lasciare il passo a bagliori e luccichii. Bacheche trasparenti, al centro di questo meraviglioso spazio, e tante testine di velluto nero perfettamente e discretamente adatte a supportare gioielli alternativi di un tempo che fu. Da guardare con la consapevolezza di essere di fronte a veri pezzi di “storia dell’ornamento”, lungo un percorso di circa quarant’anni -dal ’20 al ’70 del secolo scorso.
“Costume Jewelry”, il nome dell’esposizione, vale a dire “Gioiello Fantasia”.
Una bigiotteria pensata principalmente da designer parigini e statunitensi per sostituire nel periodo della grande depressione gli opulenti e vistosi “originali” non più portabili e ostentabili.
Di necessità, virtù. Dal poco, si sa, nascono spesso le idee più ricche. E la creatività ne trae sempre grande vantaggio. Ed ecco alla ribalta forme particolari, elementi insoliti, colori inaspettati. Il tutto così nuovo e attraente da essere prodotto anche dopo la fine della guerra e dopo il ritorno a tranquille e rassicuranti possibilità d’acquisto.
Dunque, alla nostra vista curiosa e assetata di scoperte sfavillanti, si è presentata, nella sua ospitale accoglienza, una magnifica Chichi Meroni -padrona di casa ineccepibile- “ornata” da tre spille di Trifari facenti parte di quella serie di piccole pins in metallo e smalto a soggetto figurativo denominata Jelly Belly. Di ugual forma ma di diversa misura. Di grande leggerezza e disinvoltura nel loro modo di essere appuntate sopra il suo minimale e sofisticato maglioncino nero, colore “re” nel far risaltare qualsiasi monile. Il dettaglio -lecito pensarlo- padrone della scena.
Dietro di lei, si è fatto avanti tutto il resto”¦”¦
Affacciata, verso di noi, una vastità di “campionature””¦.
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Lo stile riconoscibile, nella sua unicità, di Miriam Haskell (“Le Bijou de l’Heure “, il suo primo negozio nel ’26), precisa e puntigliosa nel modo di seguire personalmente tutte le fasi della lavorazione dei suoi piccoli capolavori, sempre romantici e iper-femminili, simili quasi a ricami. Collane, soprattutto, e materiali decisamente inusuali: legno, madreperla, conchiglie, plastiche (come la bachelite o la lucite). Che delizia quei bracciali allegri, coloratissimi, frastagliati e incisi con grande cura, indossati proprio perché potessero dare vigore a momenti di stati d’animo sofferenti e tesi alla ricerca di situazioni vicarianti. Retrogusti affettivi e richiami a messaggi segreti. E quelle spille in resina traslucida e trasparente che, accostate ai tessuti, ne prendevano il colore trasformandosi di volta in volta! Una fantasia traboccante.
- Vero connubio tra abiti e gioielli -appositamente “costruiti” per essere un tutt’uno-, la caratteristica principale, intorno agli anni ’30, della “Eisemberg & Sons original”. Spille sfaccettate come prismi atte a diffondere fulgori di luce, incisive a tal punto da rendere appetibile e desiderabile anche il tubino più austero. Belle a tal punto che, non essendo in vendita separatamente, si vocifera venissero “sottratte” con nonchalance da “golose” e “bricconcelle” signore. Vederne “de visu” più pezzi è stato emozionante.
- Ed emozionante è stato individuare, osservandone bene i cristalli e le gemme, quelle creazioni inconfondibili di Kenneth Jay Lane ammirate qualche volta indosso a icone come Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”, o Claudette Colbert, o Jackie Kennedy -l’irraggiungibile. Tra veri e falsi, tra riti e miti, tra unicità e mescolanze, sono nati allora -per rimanere intatti ora- oggetti simili a opere d’arte, pronti a impreziosire divertendo, preposti a valorizzare non impegnando. E, negli anni tra i ’60 e i ’70, ecco la ricerca di stravaganze bizzarre per Wallis Simpson -sua fedelissima cliente-, famosa, oltre per tutto ciò che è noto, per i suoi occhi color del cielo, ai quali intonava i vari tessuti scelti per confezionare il suo abbigliamento. Pare che l’abito da sposa sia stato tinto sette volte fino al raggiungimento della stessa tonalità di azzurro”¦”¦
- Che dire poi della prodiga produzione di Trifari -forse uno dei più conosciuti- che, passeggiando tra mercatini “brocante” e negozi di antiquariato, sicuramente tutti abbiamo avuto modo di “toccare con mano”? Bene! La “casa” -il “luogo”- di Chici Meroni ci ha mostrato viva testimonianza di ciò. In maniera altrettanto prodiga. Corone, foglie, pavé di strass”¦”¦e poi soggetti figurativi, pietre coloratissime, cabochon di varie sfumature e grandezze. Una vera “goduria”, per i collezionisti.
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E poi Elsa Schiapparelli, la sarta artista, trasgressiva nel suo affermare -sulla scia di Coco Chanel- il bijou “tout court”, fine a se stesso, e non mera imitazione. Il valore della falsità. Quasi un ossimoro”¦..
- E poi ancora la forte identità delle creazioni di Yves Saint Laurent -amico personale della nostra elegante ospite- che disegnò per lei l’abito da sposa.
- E Dior, e l’ungherese Miklos, e Napier, e Coro”¦”¦”¦ da far girar la testa.
Ma, a un certo punto della nostra visita, in mezzo a tanta cultura, a tanto stile, a tanta ricerca -fatta con la predisposizione a trovare quel che non cerchi o a cercare quel che non trovi, tipica dell’intenditore “capace”- non abbiamo più capito da dove venisse tutta quella luce. Se dai faretti che “colpivano” i gioielli, se dalle pietre a loro volta “colpite”, se da quei fantastici lampadari di Venini da sempre al seguito dei vari “traslochi” di famiglia, se dai cristalli dei bicchieri che “viaggiavano”su e giù”¦”¦”¦”¦.. E ci siamo dette che, forse, semplicemente, quella che si avvertiva era la tipica luce profusa dal viso di chi, con amore e passione, è solito aprire il cuore e la testa verso gli altri con grazia e generosità”¦”¦
C’è ancora tempo per scoprire dell’altro, dell’altra luce. La mostra, infatti, rimarrà aperta fino al 24 di dicembre, a Milano, in largo Augusto, 10.
Guarda caso, luce che va, luce che viene”¦..