Il blu più bello
Le continue e sorprendenti scoperte di giacimenti di zaffiri sulle alture di Chimwadzulu Hill nel sud del Malawi ci inducono ad occuparci di queste splendide pietre il cui nome in sanscrito significa semplicemente “blu” (in ebraico, sappir vuol dire addirittura “la cosa più bella”).
E’ dalla metà del Novecento, in effetti, che è provata l’esistenza di depositi di corindoni (rubini e zaffiri) di pregiata qualità in quella regione africana geologicamente caratterizzata dalla presenza di sedimentazioni magmatiche, metamorfismo roccioso, ricchi alvei fluviali. Negli anni Novanta alcune società minerarie straniere, dopo aver effettuato accurati rilievi, hanno ritenuto economico investire massicciamente nell’estrazione di gemme in loco, mentre parallelamente allo sfruttamento delle cave proseguono tuttora le ricerche con buoni esiti.
Proviamo, allora, a tracciare un identikit della pietra zaffiro con l’aiuto di varie fonti gemmologiche di massima autorevolezza.
Come sopra anticipato, lo zaffiro appartiene, al pari del rubino, alla famiglia dei corindoni – secondi per durezza solo ai diamanti (9 nella scala di Mohs) – di cui si trovano in natura anche esemplari di colore giallo, arancio (questi detti padparadscha), rosa, violetto, verde ed incolori (se puri, cioè privi di tracce di ossidi metallici; ma la purezza in questo caso non è considerata una virtù). In pratica, oggi vengono riconosciuti come zaffiri tutti i corindoni che non siano di colore rosso.
Le tonalità cromatiche dello zaffiro sono dovute alla presenza di minime quantità di atomi di ferro e titanio nel reticolo cristallino dell’ossido di alluminio (chimicamente la gemma è appunto un ossido di alluminio), variabile da blu chiaro a blu scuro (con qualche ombra verdastra talvolta).
Le rocce madri sono soprattutto marmi, basalti, pegmaliti, e l’estrazione avviene principalmente da depositi alluvionali o da giacimenti d’alterazione, di rado direttamente dalla roccia originaria. I metodi di escavazione mineraria sono estremamente semplici: le trincee tracciate a mano o l’asportazione di materiale dai pendii consentono lo sfruttamento dei livelli contenenti le gemme che si trovano in profondità. La separazione da argilla, sabbia e ghiaia viene ottenuta con lavaggi, facendo leva sul diverso peso specifico delle pietre.
I giacimenti di maggiore importanza, oltre quelli africani citati, si rinvengono in: Australia (New South Wales e Queensland), Myanmar alias ex-Birmania (Mogok, fonte del materiale più raro e pregiato, di colore blu limpido e profondo), Cambogia (Pailin), Cina, Colombia, India (Kashmir, regione da cui provengono alcuni dei più begli zaffiri della storia, di colore blu-azzurro-fiordaliso vellutato), Kenya, Sri Lanka, Madagascar, Tanzania (ex-Tanganika), Thailandia e USA (Montana).
Gli zaffiri, come i “fratelli” rubini, vengono lavorati a gemma utilizzando il taglio misto, ma in presenza di campioni di particolare bellezza si può ricorrere al taglio a smeraldo.
Una particolare attenzione va posta sui trattamenti: il riscaldamento al quale vengono sottoposti gli zaffiri è ormai una diffusa routine di lavorazione, atta a migliorare l’aspetto generale delle gemme. Altro è la “termodiffusione” vera e propria con cui si creano artificialmente centri di colore per uno spessore limitato, dando luogo alla tipica colorazione blu. Trattamenti diversi sono poi: l’irraggiamento, l’oliatura, il rivestimento con lamine e le microincisioni (per simulare l’effetto dell’asterismo).
Le cosiddette pietre stellate sono in correlazione con le caratteristiche interne dei corindoni. Infatti, di solito tali gemme vengono tagliate a cabochon per permettere la riflessione di alcune inclusioni che formano in superficie dei raggi di luce a forma di stella.
L’esame dello zaffiro condotto alla lente è fondamentale nella misura in cui individua la presenza di una certa inclusione e può quindi identificare la provenienza di una pietra, ma il semplice e sicuro riscontro di una sola inclusione può essere sufficiente per affermare se il campione allo studio è naturale.
La lucentezza dello zaffiro è vitrea, ma può tendere all’adamantino. Il valore di dispersione è decisamente modesto rispetto a quello del diamante e quindi il pregio estetico del corindone non risiede nei lampi di luce come nel diamante, ma soltanto nelle sfumature cromatiche.
La produzione di zaffiri sintetici iniziò nel XIX secolo col metodo di fusione alla fiamma, mentre oggi i pezzi più pregiati vengono realizzati coi metodi di fusione a fondente, idrotermale e di fusione a zone.
Pietre naturali similari, quindi imperfetti sostituti dello zaffiro, sono: benitoite, cordierite, spinello, tormalina e zoisite blu (tanzanite).
Infine, spaziamo come sempre nella leggenda: un tempo si credeva che possedere zaffiri fosse segno di bontà, magnanimità, coraggio e fedeltà, così come si pensava che queste gemme esercitassero poteri terapeutici praticamente illimitati, ma in particolare su apparato visivo ed intestinale, arresto delle emorragie (polverizzato e mescolato con aceto, veniva applicato al naso), guarigione dalle infiammazioni (unito al latte in crema, veniva spalmato su zone ustionate), contro le punture degli scorpioni.
Gemma sacra nell’Antico Testamento (ne era adornato al dito il re Salomone), era reputata ideale per la meditazione e la preghiera sia da buddisti che da cristiani.
Tra le pietre più celebri, ricordiamo che nel Tesoro della Corona Inglese sono conservati due grossi zaffiri di notevole rilevanza storico-culturale: lo “Zaffiro Stuart” e lo “Zaffiro di Sant’Edoardo”. Negli Stati Uniti esistono tre statue raffiguranti le teste dei presidenti G. Washington, A. Lincoln e D. Eisennhower intagliate ciascuna in uno zaffiro di 2000 carati, mentre il più grande zaffiro che presenta il fenomeno dell’asterismo ha un peso di ben 63.000 carati, pari a 12 chili e sei etti.