Il cocktail che fa cultura
Cocktail: una parola che evoca subito sfarzose atmosfere en plein air alla Grande Gatsby o spensierati ritrovi salottieri in stile “Colazione da Tiffany”, con eleganti signore e signori in abiti colorati e fantasiosi. Al rituale del cocktail il Museo d’arte di Rhode Island School of Design (USA) dedica ora una grande mostra, aperta fino al 31 Luglio, dal titolo “Cocktail Culture: Ritual and Invention in American Fashion, 1920-1980”. Vi sono esposti oltre 220 oggetti, tra capi d’abbigliamento e accessori dei più importanti stilisti internazionali, cappelli e guanti, gioielli e tessuti, opere d’arte e fotografie, mobili e pezzi di design, nonché attrezzi per preparare le diverse bevande.
In effetti, dall’epoca del proibizionismo fino agli anni ’80 il cocktail ha rappresentato uno degli appuntamenti mondani più amati, soprattutto oltreoceano, tanto da dar vita ad un vero e proprio cerimoniale fatto non solo di shaker e bicchieri, ma anche di gesti, ritmi di vita e modi di pensare, arrivando com’è ovvio ad influenzare fortemente la moda. E proprio la moda, assieme al design, oggi resta la lente con cui mettere a fuoco nel modo più efficace la storia del cocktail party a partire dai Roaring Twenties, a cui fece seguito nel 1933 il clamoroso divieto di produrre, commerciare e consumare alcolici in tutti gli Stati Uniti. Fu questo divieto, paradossalmente, a conferire grande impulso al rito del cocktail ed a consacrarlo come emblema dell’American Way of Life, trasferendolo dai locali pubblici alle mura domestiche o ai bar clandestini (noti come speakeasy) o alle navi da crociera. Era l’epoca in cui impazzava il jazz, uomini e donne scoprivano la passione per il ballo e lo praticavano liberamente indossando abiti agili e leggeri che, per le donne, si accorciavano sempre più destrutturandosi per rendere il corpo protagonista.
Il cocktail divenne quindi anche uno strumento di emancipazione della donna, la cui tendenza al look informale (leisure wear) trovò il suo coronamento dopo la Seconda Guerra Mondiale nella versatilità dei tailleur, eleganti e comodi nello stesso tempo, adatti sia in ufficio che alle feste: basta aggiungere o togliere qualche accessorio e la metamorfosi è compiuta.
Comunque, fu negli anni ’50 che prese forma l’immagine del cocktail dress che tuttora abbiamo in mente, casual ma raffinato, che alle esigenze di praticità del giorno sposa la cerimoniosità della sera: è il trionfo dell’abito da tè, da tardo pomeriggio, così ben interpretato da Holly Golightly ovvero Audrey Hepburn col suo tubino nero, la quale nell’immaginario collettivo resta l’icona dello stile giusto per le occasioni semi-informali. Trend proseguito poi negli anni Sessanta, allorché i mutamenti sociali in corso toccarono anche lo stile del cocktail rendendolo ancora più free & soft, aprendo la strada al successo dell’abito prendisole, perfetto per l’ambiente del giardino dove nel frattempo il party si è spostato dall’originario salotto.
La mostra di Rhode Island School of Design si chiude con gli anni Settanta e Ottanta, in cui la Pop Art dettò legge finanche nel mondo della moda, ispirando stampe psichedeliche e colori chiassosi per un abbigliamento realizzato con tessuti sintetici, a cui si affiancarono sontuosi tailleur-pantalone e sensualissimi abiti dalle scollature abissali.
Ufficialmente il primo cocktail party risultò quello organizzato dalla Signora Welsh di St. Louis (Missouri) nel 1917 per una cinquantina di ospiti, ma già nella prima metà dell’Ottocento il termine cocktail era in uso per designare una bevanda alcolica ottenuta mescolando ingredienti diversi (distillati, acqua, bitter, zucchero, erbe aromatiche, soda, ecc.). Il fondatore della tecnica mixologist ancora in voga è riconosciuto essere Jerry Thomas, celebre non tanto per la creazione di nuovi liquori quanto per la capacità di giostrare abilmente con attrezzi vari, inventando il mito del barman che nell’ampia gestualità esprime i suoi caratteri distintivi d’eccellenza.
Se la moda del cocktail si diffuse anche in Europa, va notato che in Italia non si affermò mai del tutto (da noi la cultura del vino è sempre stata ben radicata), addirittura “combattuta” da letterati come Filippo Tommaso Marinetti a suon di prose al fulmicotone (vedasi la “Cucina Futurista”).
Oggi dell’antico mito&rito del cocktail sopravvive ben poco e forse la moda non ha più le sue muse tra le signore che nel tardo pomeriggio sorseggiano un Bellini o un Negroni. Il termine “abito da cocktail” rimane, comunque, ad indicare un abbigliamento non propriamente formale ma nemmeno casual, elegante e non molto elaborato, corto o lungo che sia. Bene ha fatto questa mostra americana a ricordarcene la storia foriera di tante tendenze importanti.