Il corpo eletto
“I politici italiani continuano a dimenticarsi della moda, quando invece è una voce fondamentale della nostra economia. Ecco perché sono venuto oggi” dichiarava con brio qualche mese fa l’allora neo-segretario del PD Matteo Renzi, ora Presidente del Consiglio, intervenendo alla presentazione del libro autobiografico di Roberto Cavalli, “Just me!”.
In questa sede però non vogliamo tornare a recriminare sul colpevole disinteresse e sulle relative omissioni della classe politica nei confronti del Sistema Moda tricolore, ma più semplicemente capire (o meglio cercare di capire) come sia cambiato nel corso degli ultimi anni il rapporto dei nostri governanti con il cosiddetto look.
Ricorderanno tutti il celebre libro di Marco Belpoliti “Il corpo del capo” (Guanda, Parma) la cui tesi è che Silvio Berlusconi è stato il primo politico italiano della storia repubblicana ad introdurre nella politica il “corpo” come simbolo di vitalismo, potere, ricchezza, virilità (prima di lui, comunque, c’era già stato Benito Mussolini ad ostentare con particolare efficacia la propria fisicità esuberante).
Attraverso l’esame di alcune foto che vanno dagli esordi imprenditoriali all’attualità, il professor Belpoliti ha tentato di dimostrare come l’immagine del fu Cavaliere abbia seguito costantemente le logiche dello star system che comportano continue manipolazioni, mimesi e mascheramenti, siano essi ritocchi di foto, interventi di chirurgia estetica o capi di abbigliamento ad hoc (chi non rammenta, ad esempio, il sorprendente sfoggio di una bandana in occasione dell’incontro con Tony Blair e consorte in Sardegna?). La finalità, secondo Belpoliti, è sempre stata quella di comunicare persuasivamente, di sedurre il pubblico dei consumatori prima, dei telespettatori poi, degli elettori infine, nella convinzione che al giorno d’oggi il corpo è una moneta e come tale va speso bene per trarne il massimo guadagno. Tutto ciò si declina secondo i piani dell’ottimismo, del sorriso, dell’erotismo, ai quali spetta di consolidare e amplificare il messaggio politico.
Ha quindi meravigliato che qualche mese fa l’ex-Premier abbia deciso di farsi ritrarre dal “Sunday Times” col volto solcato di rughe, quasi a dimostrare di essere sì invecchiato, ma anche di essere diventato saggio, ricco di esperienza e per nulla incline a “rottamare”… né i suoi fedeli né a maggior ragione se stesso. Un altro tocco da maestro della comunicazione e mago della bio-politica quale egli è, in attesa di una ridiscesa in campo in grande stile?
In riferimento al corpo dei politici, Marco Belpoliti ha voluto analizzare “scientificamente” un altro leader allora sulla breccia, Umberto Bossi (“La canottiera di Bossi”, Guanda, Parma), personaggio che,volenti o nolenti, ha inciso in profondità nella morale pubblica e privata dell’Italia, specie in certe aree territoriali. L’autore ne ha sondato a fondo i gesti esagerati e talora trasgressivi, più da rock-star che da capo di partito, ma a incuriosirlo è stata soprattutto la sua voce, una voce cavernosa, roca, primordiale, che nello stesso tempo rasserena e crea eccitazione. Si tratta di un timbro, forse usato ad arte, molto diverso da quelli che si erano sentiti nella politica italiana fino all’inizio degli anni ’80. La voce di Bossi, di fatto, sembra studiata apposta per l’amplificazione elettrica del microfono, dal momento che il suo fondo rauco contiene l’aggressività che vi è nascosta, mentre le casse la moltiplicano in modo quasi ipnotico tra gli uditori del comizio. L’effetto è che, a prescindere dai temi del discorso, la folla è affascinata a livello sia inconscio sia razionale dalla fisicità delle parole che giungono da quello strumento.
Come nel caso di Berlusconi molto (fin troppo) si è detto circa l’influenza esercitata dalla sua strategia di marketing politico sull’aspetto esteriore dei suoi seguaci (in particolare di sesso femminile), così nel caso di Bossi innumerevoli risme di carta si sono consumate per discettare di simbologia padana, fazzoletti verdi, calzoncini e camicie a quadrettoni, ecc. Meglio passare oltre.
A questo punto, infatti, è il momento di chiedersi come quest’ultima legislatura si caratterizzi sotto il profilo del look. Di recente, intervenendo alle sfilate milanesi della Fashion Week settembrina, la nota giornalista inglese Suzy Menkes, caustica penna di Vogue, ha sdoganato il “modello” Renzi, immagine del futuro con i suoi blue jeans e le sue camicie bianche, ed ha criticato quegli stilisti che hanno ceduto un po’ troppo al fascino del vintage gipsy. “In quel periodo Renzi era a malapena nella culla, dato il suo ruolo di più giovane e dinamico leader in Europa. Perché i fashion designer hanno preferito gli anni 70 a lui?” ha chiesto provocatoria come sempre la decana dei fashion editor.
Prescindendo dalle tattiche politiche (sovente biasimevoli per eccessi verbali e materiali) che singoli o gruppi decidono di adottare per promuovere le loro istanze o ostacolare quelle altrui, è qui il caso di rilevare come la tendenza in corso sia quella di una “normalizzazione” nell’abbigliamento, per cui, se molti continuano a preferire il binomio “giacca e cravatta”, non pochi (soprattutto i più giovani) cedono alla tentazione di presentarsi finanche nei Palazzi in abiti casual, talvolta portandosi appresso uno zaino sportivo anziché la tradizionale valigetta ventiquattrore. A nostro modesto parere, le istituzioni, proprio perché come tali meritano massimo rispetto (ci rappresentano tutti e nei loro valori ci identifichiamo tutti), richiederebbero un abbigliamento opportuno, decoroso e responsabile (vogliamo dire “classico”?). Non si scordi che in certi casi più che mai la forma è sostanza (anche per una questione di “dare il buon esempio” ai cittadini), benché in fondo ciò che davvero importa è che i politici facciano nel miglior modo possibile ciò per cui sono generosamente gratificati (e lo facciano per il bene comune!).