Il diavolo è nel dettaglio
Incantevoli le sfilate con il loro glamour, ma che esborsi comportano! Affascinanti i testimonial dei brand, ma che salasso il loro conto! Splendide le boutique del centro disegnate da archistar, ma che costi mantenerle!
Viene da chiedersi se certe cifre ormai non siano davvero eccessive, ossia se il prezzo di quel tailleur griffato che si sta per acquistare vada a remunerare di più chi l’ha realizzato o l’affitto stellare del negozio nel Quadrilatero. Insomma, oggi la situazione è tale (leggi: la dismisura è tale) che si impone una distribuzione dei margini più bilanciata tra i vari operatori del sistema moda (in particolare chi offre un prodotto bello & ben fatto e sa farlo apprezzare ai consumatori), con un rapporto più equilibrato tra costo industriale del manufatto e prezzo al dettaglio. Altrimenti prima o poi scoppierà una bolla assordante.
Il fatto è che negli ultimi vent’anni in troppi sono scesi a valle per salire sul carro del vincitore, ovvero del dettaglio monomarca (controllato direttamente o in franchising), allettati dalle prospettive di ricarico, a scapito del retail indipendente, che ha visto contrarsi i fatturati un po’ per volta. Questo modello gestionale ha senz’altro consentito ai brand designer di comprendere meglio le dinamiche di vendita finale, di veicolare senza filtri i propri valori, la propria cultura, la propria esperienza, di conoscere meglio i clienti e di comunicare con loro in modo efficace, fidelizzandoli proficuamente.
Ma, d’altro canto, ciò ha fatto sì che certe vie cittadine si omogeneizzassero, tutte con gli stessi marchi e gli stessi prodotti. Ma soprattutto ha indotto la moda a caricarsi di strutture e sovrastrutture pesanti in termini di costi logistici, mentre in precedenza la distribuzione veniva affidata a partner (solo il “cuore creativo” pulsava all’interno). Ha affermato Erica Corbellini, SDA Bocconi Professor of Strategic and Entrepreneurial Management: “A fronte di affitti sempre più elevati per superfici sempre più grandi, le imprese hanno reagito dapprima in molti casi abbassando la qualità del prodotto, nella convinzione che a vendere fosse più la scenografia creata dall’archistar rispetto alla qualità delle materie prime o della manifattura; in una fase successiva buttandosi in una brand extension selvaggia per massimizzare la resa al metro quadro. Il risultato è che oggi tutti offrono un po’ di tutto”.
Intanto i consumatori – sempre più smaliziati, informati, ricercati – puntano solo ai prodotti veramente iconici. Così, alla fine, la logica retail ha portato tutti ad essere fast sulla falsariga di colossi mass market come Zara e H&M, per cui da 2 collezioni all’anno si è passati a 4, poi a 6, per non parlare delle limited edition, delle capsule, dei flash.
L’esito di queste pressioni continue è sotto gli occhi di tutti: stilisti sull’orlo di crisi nervose, con fulminei giri di poltrone negli ultimi mesi (Raf Simons ha lasciato Dior, Alber Elbaz ha salutato Lanvin, Frida Giannini è uscita da Gucci, sostituita da Alessandro Michele, Alessandro Sartori ha detto addio a Berluti per passare a Zegna, Giornetti ha abbandonato Ferragamo, Slimane ha separato la sua strada da quella di YSL, ecc.).
Ora è necessario uscire da logiche standard, abbandonare i modelli di business delle catene fast fashion per tornare ad avere un prodotto creativo ed una visione del posizionamento del marchio unici e distintivi. Altrimenti, di troppo retail la moda morirà.