Il jeans compie 143 anni
Il jeans ha una lunga storia. I mercati del Medio Evo conoscevano già il tessuto: una stoffa proveniente da Nimes -da cui deriva la denominazione di denim-, utilizzata per coprire le mercanzie navali. Si tratta di cotone resistente, duraturo, facilmente lavabile, dal caratteristico colore blu dovuto alla tintura del filo di ordito con l’indigo, mentre il filo di trama è bianco.
Per molto tempo è legata al duro lavoro, a cominciare da quello dei marinai genovesi che lo utilizzavano nell’800 per la loro tenuta da lavoro. Il termine jeans deriva dalla utilizzazione a Genova del denim e dalla sua trasformazione in pantalone da lavoro ad opera degli scaricatori del porto. A partire del 1850 il termine jeans viene utilizzato per designare non il tessuto ma un modello di pantaloni.
Saranno i cercatori d’oro ad utilizzare per primi i pantaloni a 5 tasche prodotti a San Francisco da Levi Strass; ad essi si aggiungeranno gli agricoltori, i cowboy: l’etichetta con due cavalli che tirano un paio di jeans interpreta bene il concetto di resistenza. Negli anni ’20 si impongono negli Stati Uniti come indumento del tempo libero. Nel 1935 viene lanciato il primo jeans da donna e nel 1943 Harper’s Bazar fotografa uno scamiciato in jeans da portare sui vestiti come comodo grembiule da cucina.
Il jeans arriva in Europa con le truppe americane di liberazione e si impone grazie al cinema hollywoodiano e ad icone del Western come Gary Cooper o John Wayne. Da allora la storia continua ed è lunga, segnata dal “proibizionismo” americano di indossarli a scuola e allo stesso tempo da una amplia utilizzazione cinematografica da parte di Marlo Brando e James Dean negli anni ’50. Saranno riammessi in Università ai tempi di Bob Dylan. Negli anni ’60 diventano la divisa dei giovani, sono il denominatore che accomuna i giovani ribelli.
La contestazione giovanile adotterà il mitico modello Levi’s 501 a divisa collettiva: simbolo delle ideologie rivoluzionarie del ’68 contro il perbenismo conservatore e borghese, diventa inoltre il segno dell’antimoda.
Ma fermiamoci qui, anzi ricominciamo da qui per capire come mai il jeans è entrato nella moda, Il jeans, a partire da questo momento -1968- diventa il primo capo globalizzato, e ancora oggi -nel secondo decennio del 2000- è l’unico capo di abbigliamento veramente globalizzato, senza previsioni possibili di flessione in questo senso. Non stiamo parlando solo di una globalizzazione geografica, per il jeans si tratta di una globalizzazione totale. All’abbigliamento differenziato per classi sociali, per età e per sesso, il jeans ha sostituito un capo unico assolutamente indifferenziato e omogeneo, cioè uguale per tutti. Trasversale e valido per tutte le classi sociali e tutte le età; è utilizzato con la stessa disinvoltura dalle star del cinema o dello spettacolo, dal dirigente della multinazionale, e dall’operaio; dal professore e dallo studente. Si è sostituito all’abbigliamento differenziato per sesso, è veramente un capo unisex. Ha infine superato la diversificazione dell’abbigliamento per culture nazionali per diventare l’abbigliamento trans-nazionale per eccellenza.
Quali sono gli elementi che possono aver determinato questa proiezione così generalizzata sul mondo dell’abbigliamento, e, potremmo dire, sulla cultura del nostro tempo?
Oltre quanto appena detto, si potrebbe azzardare qualche considerazione sulla linea della costruzione dell’identità personale. Riattraversiamone la storia alla luce dei mutamenti sociali.
Narrando la storia del jeans vanno indicati gli elementi che lo caricano di senso, di significati vari, di volta in volta diversi e quasi opposti. Il tessuto povero, forte, è legato al lavoro duro; è un tessuto che riecheggia il coraggio, la tenacia americana verso conquista della sua democrazia. Ma il tessuto è duttile, ammette un cambio a partire dalla colorazione; si lascia modificare e personalizzare. Un capo globale che narra però una storia personale: li si può scolorire, li si può strappare, rammendare, modificare seguendo un pensiero personale, lasciandoli però immutati nella loro forma essenziale. Bisogna riconoscergli la capacità di costruire una identità, certamente molto lieve, poco significativa, ma pur sempre accoglie un tentativo di differenziazione: uniformarsi cercando comunque di differenziarsi. Perché questa è una necessità della persona !
La storia personalizzata del jeans è sottolineata dal fatto che la tela è modificabile sul corpo: quanto più è stretto rigidamente al corpo tanto più ne prende la forma. E questo risponde bene anche al processo di sessualizzazione dell’abbigliamento; il jeans, simbolo della ribellione giovanile, diventa il simbolo della trasgressione sessuale. E’ il primo e universale capo unisex. Tanto stretto al corpo, è come una seconda pelle per chi lo indossa; non solo, ma con le cuciture, i rinforzi e le tasche, accentua il richiamo sulle zone sessuali.
Ma non finisce qui la storia: continua con il suo ingresso nell’universo della moda
Compare, pantalone classico, griffato con qualche piccola variazione; poi, pian piano diventa una presenza costante, stagione dopo stagione nelle collezioni seguendo i dettami delle fantasie degli stilisti, con una trasformazione nei modelli e nelle lavorazioni che la dice lunga riguardo alla “rigida” duttilità del tessuto. Si ritrova contaminato da nuove tecnologie di lavaggi o dall’utilizzo accanto al cotone di fibbre costose, come il platino; arricchito da cristalli e da pietre, lussuosamente ricamato. Accanto al classico pantalone, il mondo della moda si appropria della tela denim e la lancia sulle passerelle accanto ai più preziosi tessuti di capi fashion, abiti, giacche, tailleur ….
Sorprendentemente quindi lo troviamo presente sui mercati con due “registri” diversi: da una parte permane come abbigliamento per il duro lavoro manuale e ideale abbigliamento per il tempo libero; ma scopriamo anche che ha la sua importante nicchia di mercato come capo alla moda volubile e lussuoso, anzi un must; l’unico capo che possiamo considerare come uscito dal flusso della moda e permanere nella moda senza trasformarsi in “costume” o “divisa”.
Un capo quindi che va considerato “oltre la moda”.