Il mondo in una perla
Manhattan val bene una perla, se è vero che in cambio di alcune sferette di vetro i nativi americani proprietari dell’isola da cui sorse New York decisero di venderla. Evoca storie curiose come questa e tante altre suggestioni la mostra “Il mondo in una perla. La Collezione di Perle del Museo del Vetro 1820-1890”, allestita al Museo del Vetro di Murano fino al 15 Aprile, ottimamente curata da Augusto Panini e Chiara Squarcina, che sono tra i messimi esperti della materia (a Panini si deve il primo catalogo dedicato a tali oggetti, sul quale ora si fonda la rassegna in esame).
E’ davvero un mondo straordinario quello delle perle di vetro prodotte in Laguna, che nel corso del loro viaggio nei secoli hanno sì dato vita a monili e altri oggetti decorativi, ma hanno altresì rappresentato una ricercata merce di scambio che nel corso dell’800 era oggetto di intenso export verso le colonie dell’Africa Occidentale, dell’India e delle Americhe.
La mostra muranese abbraccia una parte dell’eccezionale collezione di 85 cartelle campionarie con 14182 perle e 3 pannelli di stoffa del 1863 donati dalla Società delle Fabbriche Unite con 2015 perle e 266 mazzi di conterie, inoltre 91 mazzi di perle a lume, 8957 perle integre, 274 frammentate e 492 mazzi di conterie.
Le perle di vetro di Murano racchiudono in sé non solo il valore della bellezza, ma anche quello dell’arte, della tecnica artigianale più sublime, per non parlare delle ricadute economiche del loro commercio. A Venezia questa manifattura (che è tuttora fiorente) ebbe origine nel già nel XIV secolo e una delle prime lavorazioni adottate fu quella a speo (spiedo), per cui una piccola quantità di vetro fuso veniva fatta ruotare sul fuoco e operata con un ago di ferro sino ad ottenere una perla forata. Nella seconda metà del XV secolo si giunse a realizzare la molatura di perle da canna forata a più strati, con sezione a stella (perla rosetta), e poi nel XVI secolo si mise a punto la rinomata tecnica delle perle alla lucerna o a lume, che prevedeva l’uso di canne massicce.
Tra i grandi vetrai veneziani del XIX secolo si ricordano Giovanni Battista Franchini, Domenico Bussolin, Benedetto Giorgio Barbaria, Antonio Salviati, Pietro Bigaglia e Giovanni Giacomuzzi, che generosamente e coscienziosamente donarono alla Città il meglio della propria produzione a fini museali. Fu grazie a maestri geniali ed illuminati come loro che il museo muranese poté appunto vedere la luce e assurgere a “tempio delle perle di vetro”, tale da vantare un patrimonio inestimabile: basta pensare ai cosiddetti “Lavori in vetro alla Lucerna” che includono le perle prodotte dalla famiglia Franchini dal 1820 al 1860, tra cui le Perle a Coste di Mellone e le Perle in cristallo animate, la Madre perla rosea e le Canne lavorate.
Nelle collezioni museali muranesi si possono ammirare anche quelle che forse sono le prime perle millefiori prodotte in epoca moderna, tra il 1843 e il 1845 (originariamente concepite in epoca alessandrina e romana, poi realizzate fino al XV secolo in Medio e Vicino Oriente). L’assortimento di perle in mostra è dunque veramente unico e comprende pure varie perle rosetta molate a rotina con strati di avventurina, con inserzioni di canne forate, fino a dieci strati, dai colori insoliti, a sottolineare il livello di virtuosismo e carica innovativa innestatisi sulla tradizione classica. Per la cronaca, fu Marina Barovier a inventare nel 1482 la perla rosetta, protagonista delle prime esportazioni nel Nuovo Mondo e in Africa tra la fine del 1400 e gli inizi del 1500. Dopo una lunga stasi, queste perle conobbero un revival tra il 1882 e il 1888, con un’importante commessa di 251000 esemplari molati.
Le perle veneziane sono elementi decorativi di particolare fascino in ogni epoca e giustamente diversi studi recenti hanno contribuito a riscoprirle e valorizzarle, sottolineandone gli aspetti non solo estetici, ma anche economici e culturali tout court.
Specialmente nel periodo Liberty, assecondando i trend di moda, esse furono ampiamente utilizzate dalle “muse” dello stile sia in Italia che all’estero. A Venezia, allora, le manifatture più significative ed innovative erano quelle dei Moretti e dei Franchini, già citati, che andavano sperimentando creazioni sempre più ardite e fantasiose, dal punto di vista sia cromatico sia artigianale. Nascevano così le celebri perle lavorate “a lume” con intarsi straordinari, spesso di soggetto floreale, impreziosite da “fili buttati”. Queste poi, negli anni ’30, vennero utilizzate di frequente intercalate da elementi vitrei appiattiti (in genere monocromatici ed eseguiti con un semplice filo di vetro fuso attorcigliato attorno ad un perno centrale), che fungevano da distanziatori e, nello stesso tempo, facevano risaltare la bellezza delle perle stesse.
La vetreria veneziana, dopo l’eclissi produttiva provocata dalla guerra, rifiorì splendidamente negli anni ’50, quando cominciò a produrre le perle “pezzate”, realizzate con inserti in foglia d’oro o d’argento ricoperti con una breve colata di colore trasparente. A volte, queste perle venivano anche “schiacciate” con pinze speciali. E fecero la loro comparsa con successo anche perle di grandi dimensioni, in vetro soffiato: tra queste, attenzione particolare meritano i pezzi realizzati non con la tecnica del lume, bensì direttamente in fornace con una metodologia d’esecuzione simile a quella impiegata per i “finali” dei lampadari. Poi fu la volta delle perle ritorte (frutto di un semplice movimento compiuto con una pinza apposita), meglio conosciute come perle “a sventola”, in tutte le varianti cromatiche e di decoro.
Intanto, il progresso scientifico e tecnico portava ad un progressivo perfezionamento dei colori e vedevano la luce, così, mediante la fusione di canne vitree arrotolate a gomitolo su un filo di rame, le perle “venate”, solitamente in sfumature pastello o alabastro. E nascevano le perle “a marmorino”, secondo metodi di colorazione a caldo in fornace. Inoltre, la perla veneziana si appropriò di una tecnica tintoria di antica tradizione egizia e fenicia: sulla base colorata venivano “buttati” fili sottili in nuance contrastante o in avventurina, poi tirati con un piccolo uncino. Queste murrine, che talvolta presentavano anche piccoli inserti a forma di fiore, erano dette “strasinàe” (cioè “trascinate”). Sul far degli anni ’60, nelle vetrerie della Serenissima trionfarono soprattutto le perle soffiate a lume, in grado di offrire un’amplissima gamma di soluzioni, dalla foglia d’oro o argento alla mezza filigrana, alle canne dritte, all’uso di inserti di murrine, al rigadin, al balotòn, nomi – questi ultimi, di per sé eloquenti (rigato l’uno, a palla l’altro).
Ai produttori di bijoux italiani e stranieri le perle giungevano direttamente dalla Laguna (e da fornaci dell’entroterra veneto) sia sfuse, quindi da montare (di consueto su collane o bracciali) sia già infilate in matasse e mazzi di fili. In quest’ultimo caso, provenivano direttamente dalle abili mani delle cosiddette “impiraresse”, le donne veneziane che infilavano le perle (già selezionate per colore, dimensioni e tipologia). I loro canti a stornello sono tuttora rimasti in voga a Piazza San Marco, dove il business delle murrine continua ad essere più che mai fiorente.
Le origini della perla come ornamento si perdono nella notte dei tempi. Sappiamo che a Venezia (specialmente a Murano) fu attorno all’anno 1000 che iniziò questo tipo di lavorazione con il vetro (molti vetrai veneti vi si erano rifugiati dall’interno per sfuggire alle invasioni barbariche).
Da sempre esse sono eseguite secondo due metodi di base: da canna forata e da canna massiccia. Nel primo caso, si preleva un bolo di vetro, lo si sagoma, lo si fora longitudinalmente con pinze speciali in modo da ottenere una sorta di tubo. Il bolo viene poi ricoperto con altro vetro ed allungato, consentendo di ottenere sezioni circolari tanto più sottili quanto maggiore è l’allungamento. A seconda, così, della sagomatura e degli strati di colore sovrapposti, si hanno perle a sezione multicolore e “disegnate” come se fossero murrine forate (si veda la deliziosa “rosetta”).
Partendo, invece, da una canna vitrea massiccia, si realizza la tecnica a lume: al calore di una lucerna, supportata da un mantice, il vetro rifonde e genera un filo che viene avvolto attorno ad un’asta di metallo, formando un gomitolo, che viene lavorato con pinze e stampini fino ad ottenere la sagoma desiderata. Tra le varianti di questo tipo di tecnica, ricordiamo quella a foglia d’oro o d’argento, quella dell’applicazione di murrine sul nucleo principale per creare perle “millefiori” o “a mosaico”. La lavorazione più caratteristica, però, è quella della perla “fiorata”, con il bolo principale decorato dal disegno realizzato con un sottile filo di vetro colato da una cannula.
Le perle di vetro, che a Venezia erano generalmente chiamate “conterie” (dal latino “comptus”, che significa conto, ornato) sono note con nomi diversi, a seconda del tipo: brovadini (specie di perle non ben arrotolate, di forma cilindrica), Bulgari (dal nome della celebre dinastia orafa romana; miscuglio di perle del medesimo colore e misura diversa), burattini (miscuglio di perle di vari colori e stessa misura), ceraspagna (perla tratta da una canna a due strati, uno interno giallo ed uno esterno in rubino all’oro), corniole (al contrario delle precedenti, hanno lo strato interno bianco e quello esterno giallo o acquamarina o in rubino in selenio o in rubino all’oro), perle “con la sottana” (lo strato interno è di qualità scadente, spesso nero, mentre quello esterno pregiato, solitamente rosso coppo).
Scriveva Karen Blixen: “Le perle sono frutto del mistero e dell’avventura: chi segue la carriera di una perla raccoglie tanto materiale da trarne cento favole”.