Il ritorno dei marchi solitari
I marchi monoprodotto (e magari anche monodistribuzione) stanno tornando alla ribalta, dopo che per anni la parola d’ordine per i gruppi del lusso era stata: “brand extension”, per cui le maison diversificavano a tutto campo, spaziando dagli abiti ai profumi, dalle calzature ai gioielli, dalla biancheria per la casa agli hotel, e investendo massicciamente nell’apertura di negozi diretti. Obiettivo: moltiplicare le opportunità di vendite incrociate sotto l’egida di un marchio forte, ben riconoscibile e vessillo di lifestyle. Adesso pare essere tornato il tempo dei brand specialisti, a volte rimasti tali per scelta (focus sul core business storico), a volte per necessità (in caso di piccole dimensioni), a volte per pura fatalità.
Di questo interessante fenomeno si è occupata con la lucidità analitica che la contraddistingue la docente bocconiana Erica Corbellini, SDA Professor of Strategic and Entrepreneurial Management, nell’interessante articolo “Marchi monoprodotto: meglio soli che troppo accompagnati” (http://ideas.sdabocconi.it/strategy/archives/4045). Scrive Corbellini a proposito della valenza del core business dei single-product: “Mentre i grandi marchi aprivano flagship stores in location dai prezzi stellari, pagando archistar per costruire palcoscenici con sempre più prodotti in lotta tra loro per il ruolo da protagonisti, queste aziende hanno continuato a servire il dettaglio indipendente (le boutique multimarca) che, essendo tale, per definizione screma e acquista da ogni marchio solo quello per cui è davvero specializzato. Il paradosso è che anche i marchi lifestyle sono in realtà molto meno a 360 gradi rispetto alla proiezione aspirazionale della loro offerta: perché se è vero che in teoria offrono di tutto, in pratica vendono prevalentemente i prodotti cosiddetti iconici, quelli per cui sono da sempre riconoscibili e su cui fondano il loro vantaggio competitivo”.
Tuttavia, proprio l’espansione spinta tramite il lancio di prodotti collaterali (spesso solo per “fare immagine”) ha comportato l’apertura di boutique molto ampie rendendo così più arduo il raggiungimento del punto di pareggio, ovvero la quantità di prodotto venduto necessaria a coprire i costi sostenuti, quindi mettendo a rischio la profittabilità dell’investimento e innescando un circolo vizioso in termini di ampliamento delle superficie e del numero di articoli in assortimento.
Nel frattempo la crisi ha indotto i consumatori ad essere più guardinghi sul fronte degli acquisti, in particolare più attenti al rapporto qualità/prezzo e più sensibili al valore dell’autenticità. In altre parole, vogliono spendere meno, ma meglio, privilegiando prodotti genuini, non contraffatti in alcun modo, realizzati da un’azienda che abbia saputo sviluppare negli anni una forte competenza e capacità di differenziazione.
La Professoressa Corbellini cita Barba Napoli per la camicia formale e Tintoria Mattei per quella casual, Saucony o Golden Goose per le sneakers, Church per le scarpe formali, J Brand per i pantaloni in denim, PT Pantaloni Torino per i pantaloni smart casual, V73 e Paula Cademartori per le borse, Pepper Chocolate e may mOma per i bridge jewels, Herschel per gli zainetti: sono solo alcuni dei tanti esempi dei quali si compone il nostro look sempre più mix & match. Si tratta di realtà di mercato relativamente piccole, che sono in grado di continuare a crescere in modo brillante.
Comunque, è doveroso precisare che i negozi monomarca non sono la soluzione più confacente per chi vende uno o pochi prodotti (al massimo possono essere un investimento di comunicazione per penetrare nel business della distribuzione all’ingrosso: è il caso del negozio delle infradito Havaianas a Forte dei Marmi o di quello delle borse Leghilà a Milano). Il dettaglio indipendente però è in forte crisi oggi nel nostro Paese, mentre in altri contesti, come quello cinese, non esiste affatto.
Per creare un multimarca di successo – spiega Corbellini – “è necessario, anzitutto, fare tanta ricerca – un mix di grandi marche, specialisti di nicchia e designer emergenti – che faccia la differenza rispetto alla maggiore profondità dell’assortimento dello stesso marchio nel suo punto vendita monomarca. Poi bisogna ricordare l’importanza di vendere un’esperienza, non solo un prodotto: luci, colori, materiali, elementi sensoriali come la musica e le fragranze, punti di incontro come librerie e caffè, varietà del mix merceologico, spazi di animazione e contaminazione sono tutti elementi imprescindibili per evolvere dalla tradizionale boutique al concept store che esprime in maniera forte il suo punto di vista”.
In definitiva, bentornati marchi specialisti, ma a patto che sappiano essere presenti in “luoghi di shopping capaci di selezionare quei prodotti ed esperienze che li facciano sempre essere in ottima compagnia”.