Il vestir d’estate
Un vecchio testo di bon ton ricordava che ciò che al bordo della piscina può essere elegante, non lo è più man mano che ci si allontana dalla piscina stessa. Aforisma che si può applicare alla spiaggia e alla città. Perché ciò che in spiaggia è tollerabile, non lo è per fare shopping in città e tanto meno per presentarsi sul posto di lavoro.
Perché l’affermazione abbia un qualche senso, dobbiamo andare un po’ indietro nel ragionamento. E iniziamo con una domanda: ci vestiamo per “apparire” o per “essere”? In genere assegniamo alla parola ‘apparire’ un senso negativo, come di qualcosa che si mostra ma non è ciò che si mostra. In realtà l’apparire dovrebbe mostrare qualcosa fuori di noi –un sorriso-, ma attraverso quel qualcosa palesare noi stessi, chi siamo, come siamo o come vorremmo essere.
Gillo Dorfles, professore di Estetica, oltre che critico d’arte e pittore, negli ultimi anni del suo lavoro ripeteva che la forma deve tornare ad essere sostanza e lo diceva con riferimento all’arte perché la bellezza è l’adeguatezza della forma al contenuto: la forma esterna, cioè l’apparire, deve legarsi ad un contenuto perché non sia pura formalità o pura apparenza. Se la forma si lega ad un contenuto, ad una sostanza, allora l’apparire coincide con l’essere: il sorriso coincide con l’essere contenti.
Noi ci occupiamo di abiti, di abbigliamento. Serve applicare a questo ambito l’affermazione di Gillo Dorfles? Si, anzi è utile farlo.
L’abito è una forma esterna e a prima vista è solo apparenza: non ha relazione con chi lo indossa; è fatto da altri; chi lo indossa spesso non può dare suggerimenti a chi lo costruisce; è inizialmente un oggetto estraneo. E’ proprio così: è un oggetto estraneo che troviamo in un posto estraneo –un negozio-, su un manichino o appeso assieme ad altri abiti estranei a chi li guarda.
Ma nel momento in cui riveste il mio corpo non mi è più estraneo, non può essere solo apparenza. Vestirsi non è mettersi qualcosa addosso. Vestirsi è rappresentarsi: presentarsi in pubblico. Cioè, seguendo l’affermazione di Dorfles, il vestito che scelgo e che indosso, si carica, si “riveste” della mia sostanza, di chi io sono, della mia identità, del mio ruolo. Ma se vestirsi è rappresentarsi in pubblico, il vestito non può prescindere dal luogo e dalla circostanza per cui è indossato. L’abito di per sé può essere bello, sarà elegante se una volta indossato, risponde alla mia dignità, è adeguato al mio corpo, ma anche alla situazione in cui il mio corpo si muove, cioè adeguato a quello spazio sociale in cui mi trovo ad operare, spazio quindi non privato ma pubblico. L’eleganza è una forma di bellezza a cui concorre certamente quella dell’abito -espressa generalmente nel taglio, nei colori, nella costruzione, nel tessuto-, e quella che nasce dalla adeguatezza dell’abito alle circostanze -mattino, sera, lavoro, momento di relax, in casa, ecc.-; a cui si aggiunge l’ eleganza che nasce dal fatto che l’abito è adeguato alla mia persona, a chi io sono: alla mia età, ruolo sociale e professionale. L’adeguatezza dell’abito alle circostanze è il tema che ci ricollega all’affermazione iniziale.
Eleganza significa vestire in modo adeguato alla propria identità e al luogo e circostanza in cui ci si muove. Si dovrebbe vestire diversamente in un luogo pubblico e in privato, in casa e al lavoro -e sul lavoro la funzione e la differenza di ruolo sono espresse dall’abbigliamento: si vestono in modo diverso l’usciere e il presidente del consiglio d’amministrazione-, per fare sport e in vacanza, per andare in un ristorante elegante o in trattoria. In realtà questi canoni dell’eleganza sembrano oggi dimenticati, la moda addirittura tenta di farci credere che averli dimenticati è espressione di modernità e di libertà: basti pensare alle paillettes che erano un adorno per abito da sera e ora decorano il golfino con cui si va al mercato. Non meraviglia quindi che in città e anche sul lavoro ai primi caldi, c’è chi si abbiglia come in riva al mare: short cortissimi che “scoprono” i glutei; top a fascia, vagamente rassomiglianti a un reggiseno; spalle scoperte fino al fondo schiena; trasparenze che permettono intravedere, se ancora la si porta, la minima espressione di biancheria intima lo slip, il perizona, il tanga; pantaloni sempre più a vita bassa, ombelichi a vista, gonne cortissime, scollature –si fa per dire- che lasciano ampiamente scoperto il seno, ecc.
Ma è sufficiente il caldo per giustificare un vestire così poco elegante ed esibizionista? No, non lo è in città, e neppure sulla spiaggia o sul lungomare e la ragione è semplice ma nello stesso tempo delicata perché tocca il valore antropologico che assegniamo al corpo.
La nostra è una società dell’immagine che tende alla spettacolarizzazione, anche del corpo, e inoltre l’erotizzazione progressiva a cui stiamo assistendo, vorrebbe giustificare ed elevare a fatto di modernità e di libertà l’esibire quanto più possibile il corpo scoperto. Ma c’ è ancora altro. L’uomo/donna di oggi affida alla libertà personale e non alla realtà e quindi alla verità il compito di decidere ciò che è bene o male. Ciò rende fragile ogni riferimento alle esigenze basilari naturali derivanti dalla realtà delle cose, e dà ragione dello smarrimento dei valori a cui fare riferimento nel pensiero e nell’azione. Anche nell’ambito dell’abbigliamento è la libertà (l’esibizionismo, lo fanno tutti, l’opinione personale, il giudizio soggettivo, il lasciarsi andare al sottile e non confessato desiderio di sedurre, ecc…) e non la verità su chi è l’uomo/la donna, la verità sulla sua dignità, la verità del legame corpo persona a definire ciò che è portabile e dove è portabile. “L’eleganza del nostro tempo -affermava Leonardo Terzo professore all’Università di Pavia sul suo blog in un suo articolo del 2012- sembra quindi orientarsi verso questi nuovi valori, che definirei ‘proto-prostitutivi’“. Anche a voler minimizzarla, dato che risulta piuttosto cruda, l’affermazione del prof. Terzo coglie nel segno e aggiunge una connotazione etica all’atteggiamento in questione, oltre a riaffermare che non è elegante e tanto meno moderno esibire parti del corpo nudo. Il corpo scoperto, quello che volutamente viene spogliato, rivela da parte del soggetto una scarsa considerazione del valore del corpo, che viene offerto allo sguardo altrui come mero oggetto di godimento, ridotto a semplice manifestazione dell’appartenenza sessuale. Il corpo non è la persona, ma attraverso il corpo si coglie, si conosce la persona. Solo la personalizzazione del corpo, cioè solo sottolineando l’appartenenza del corpo ad una persona che esprime attraverso il corpo la sua ricchezza spirituale –cultura, affetti, emozioni, pulsioni- si rende ragione della dignità del corpo. Il corpo non è solamente portatore di una carica estetica, e neppure è un semplice strumento di funzioni fisiche, biologiche o sessuale, perché a sua volta la persona investe il corpo della sua “dignità”. Quando la dignità del corpo non è percepita, o quando viene a mancare il legame tra corpo e persona, il sentimento del pudore viene a mancare e l’individuo offre allo sguardo altrui il corpo nudo. Ci piace chiudere queste considerazioni dicendo che il pudore è il sentimento di una necessaria protezione (coprire il corpo con l’abito) di qualcosa, la dignità del corpo che è al tempo stesso personale, intima, fragile.
Quindi sono ragioni estetiche (l’eleganza), ma ancora di più ragioni antropologiche (la dignità del corpo), quelle che non giustificano la spettacolarizzazione della corporeità a cui assistiamo non solo sulla spiaggia, ma anche nelle vie dello shopping delle nostre città e sulle belle montagne di casa nostra dove è diventato abitudine prendere il sole come se si fosse in riva al mare.
Può interessare leggere i seguenti altri articoli sull’argomento in questione.
http://www.imore.it/rivista/identita-personale-corpo-e-moda/
http://www.imore.it/rivista/sappi-prima-di-tutto-chi-sei-e-ornati-di-conseguenza/