Il vestito parla?
Fu Roland Barthes, semiologo francese, a porsi il problema di un possibile linguaggio vincolato all’abito -ossia se i “segni” inerenti all’abito possano organizzarsi secondo un modello linguistico-, nel suo libro il “Sistema della Moda” pubblicato nel 1967. I risultati della sua indagine non furono all’altezza delle aspettative e fu costretto a portare lo studio dall’abito in sé, al discorso sull’abito, cioè verso il suo metalinguaggio: in particolare le leggende, i “miti”, tutti i discorsi che girano attorno ad esso e che riempiono le didascalie delle fotografie di moda o i servizi televisivi. Il discorso di Barthes si sposta insomma sull’«abito scritto» cioè “descritto” nei servizi di moda.
Allora cosa possiamo dire sul tema: se l’abito in sè parla, a partire da Barthes e dopo di lui?
A nessuno sfugge la rilevanza antropologica dell’abito in quanto strumento di rafforzamento o indebolimento della propria identità e -sempre di più- di esibizione della propria immagine. Annoveriamo di fatto l’abito tra gli elementi della comunicazione non verbale: gli assegniamo una parte importante nelle relazioni sociali. Incontrando una persona che non conosciamo, osserviamo innanzitutto come è vestita e da questo deduciamo una prima impressione sul nostro interlocutore; quando dobbiamo partecipare ad un evento importante o incontrare una persona a cui teniamo, pensiamo innanzi tutto a come ci vestiremo. Insomma sappiamo bene, per esperienza, che l’abito contribuisce notevolmente a quella prima buona impressione, talvolta così importante nelle relazioni sociali, da essere quella che conta e che può ipotecare il nostro futuro -si pensi ad esempio ad un colloquio di lavoro-. Possiamo quindi sostenere che l’abito, almeno in alcune situazioni, è una rappresentazione di noi stessi, o meglio ci presenta agli altri prima delle presentazioni ufficiali e forse in modo più sintetico e profondo. Può darsi che la persona occasionalmente incontrata non ricordi il mio titolo professionale o il mio nome, ma certamente ricorderà l’impressione generale che la mia presenza ha suscitato in lei, gradevole o sgradevole, di simpatia o meno, di eleganza o meno, di disinvoltura per adeguarmi al contesto, ecc, ecc .
Il contesto poi ha sull’abito un riflesso molto importante: toccheremo più avanti questo argomento. Per ora ci limitiamo a dire –l’osservazione non è priva di importanza- che il contesto rivela la stretta connessione che si stabilisce tra abito e persona: sono a disagio, se non ferita nella mia dignità, se mi rendo conto che il mio abbigliamento non è adeguato al contesto; per evitare momenti imbarazzanti ed umilianti cerchiamo sempre di adattare il nostro abbigliamento alla situazione, alle persone, all’ambiente in cui ci verremo a trovare. Nessuno di noi, talvolta non lo si vuole ammettere, è insensibile di fronte ad una critica sul nostro personale modo di vestire: se ci viene detto che abbiamo una macchia sulla camicia, ci sembra che la macchia sia in realtà scoperta, individuata, assegnata alla nostra persona. Diceva François de la Rochefoucauld che il nostro orgoglio soffre di più per il rifiuto del nostro gusto (anche nell’abbigliamento) che della nostra opinione.
Ritorniamo all’affermazione iniziale sul linguaggio dell’abito e sulla sua capacità di rappresentare l’identità personale. Queste “capacità” sono inerenti all’abito in sé o sono derivate da altri fattori? Lo stesso Roland Barthes dovette ammettere nel corso dei suoi studi che l’abito in se è povero di espressione; come sono poveri di significato i suoi elementi costitutivi: gonna, corpino, lunghezza, colore, adorni ecc. La relazione tra questi elementi può caricare l’abito di un qualche significato comunque elementare: un abito scuro comunica rispettabilità, una gonna corta regala un aspetto giovanile, il nero in un certo contesto mi parla di lutto. Ma al di là di queste indicazioni, l’indumento, secondo Barthes, veicola un solo significato principale, ovvero “il grado di integrazione dell’individuo nella società in cui vive.”
Indossare un vestito non è un atto senza significato; “vestirsi” costituisce un atto profondamente sociale. L’uomo si veste non solo per proteggersi dalle intemperie, ma, secondo una classica definizione, si veste anche per nascondere la propria nudità o per farsi notare: ad esempio la donna usa l’abito come adorno per farsi ammirare. Seguendo poi i suggerimenti di Barthes possiamo dire che l’uomo si veste per entrare in dialogo con individui di una collettività: come abbiamo detto più sopra, per presentarsi agli altri, per rappresentarsi in società. Quindi un significato –o un linguaggio- che possiamo assegnare all’abito è quello di dire agli altri se apparteniamo o meno ad una certa sfera sociale o culturale. Se mi muovo in un ambito lavorativo creativo o voglio essere ben accetta in tale ambiente, sceglierò quell’abbigliamento che identifica con chiarezza gli individui che operano nel settore della creatività. Ma può succedere che in un certo ambiente sociale diventi di moda vestirsi diversamente da come lo si è fatto per tanto tempo, allora quella tipologia di abito non mi serve più per dire agli altri che appartengo a quell’ambito sociale. In definitiva il significato relativo al contesto è labile. Possiamo fare un esempio di quanto detto attraverso la storia del jeans: inizialmente è l’abbigliamento di chi svolge lavori pesanti, scaricatori, cowboy; poi passa a significare, all’epoca della contestazione giovanile, l’atteggiamento contestatario delle convenzioni sociali; oggi è il capo di abbigliamento senza “frontiere” sociali, geografiche, di età o di sesso.
Fino a qualche tempo fa era la griffe ad aggiungere un significato – più che altro suggestioni- al capo di abbigliamento: non è lo stesso esibire una borsa Hermes che un borsa Carpisa. Il significato – il messaggio- che si veicola con una borsa Hermés è chiaro: sono una persona che può permettersi questo accessorio, sono alla pari di Rania di Giordania.
Come possiamo rispondere a ciò che ci siamo chiesti all’inizio: “il vestito parla?”. Possiamo dire che nonostante l’abito si vesta a sua volta di significati labili e mutevoli, quindi apparentemente privi di importanza, ciò non toglie che abbiano una certa importanza di tipo sociale: dobbiamo conoscere questi segnali per non incorrere in situazioni incresciose. E’ inoltre importante avere presente che, pur nella loro labilità, questi significati sono tali indipendentemente dalla volontà di chi indossa quel capo. I jeans logori vengono sempre letti come abbigliamento trascurato anche se chi lo indossa dovesse pensare che non è così; l’abbigliamento succinto, indipendentemente dal fatto che chi lo indossa dichiari di non avere intenzione erotiche, è comunque letto come un richiamo sessuale. Anche se io lo ignoro, un abito rosso è comunque un capo che richiama su di me gli sguardi dei presenti perché il rosso si fa notare.
Per concludere. Non è attraverso l’abito che indosso come posso lanciare al mondo messaggi importanti, a meno di portarli scritti su una t-shirt. Oggi non è l’abito che comunica la mia posizione sociale come avveniva nel Rinascimento; ma l’abito, la scelta di alcuni capi o la scelta di uno stile, sono in grado di comunicare agli altri qualcosa della mia identità o almeno come voglio apparire agli altri in quelle circostanze; oppure manifestare le mie scelte culturali ed anche ideologiche. Non dimentichiamo che alcuni capi di abbigliamento dichiarano ad esempio una funzione. L’aviatore, il sacerdote, -in genere chi porta una divisa-, se veste sempre e ovunque con l’abito che identifica la funzione, evidentemente sempre e ovunque vuole essere riconosciuto per quella funzione. E viceversa chi non la indossa, a parte le situazioni in cui può prescindere legittimamente, indica che non vuole essere identificato con la funzione. L’insegnate che veste come gli alunni, jeans sdruciti e t-shirt, evidentemente comunica agli alunni che vuole essere considerato pari.
Quindi se pur l’abito non fa il monaco …… le alternative sono: o sotto il saio c’è comunque un monaco che quindi sta dichiarando la sua identità; oppure, se non c’è un monaco, c’è qualcuno che vuole apparire agli altri come monaco.