Internazionali si diventa
L’affascinante immagine del “villaggio globale” in cui si è trasformato il nostro pianeta esprime bene l’idea che ogni sistema nazionale è sempre più interdipendente da altri Paesi/mercati. Col ridursi della dimensione spaziale che divide i luoghi, nonché della dimensione temporale (per il simultaneo verificarsi di eventi socio-economici), si sono abbassate le barriere culturali ed i singoli contesti locali si sono resi ancora più appropriati all’interazione. L’espansione delle attività internazionali ha determinato la diffusione della tecnologia, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di trasporto, la frantumazione delle gabbie istituzionali. L’attivazione del processo di interconnessione tra le singole industrie nazionali che ha generato la globalizzazione del settore ha pure sullo sfondo la conversione di molti business da labour intensive a capital intensive e l’emergere di un consumatore universale, omogeneo in termini di cultura, reddito disponibile, bisogni e gusti.
Il settore della moda sembra fornire un perfetto esempio di industria globale, dove ogni impresa può acquisire significativi vantaggi competitivi integrando le proprie attività su scala mondiale: in effetti, le condizioni stimolanti la predisposizione strategica all’internazionalità sono chiaramente individuabili nell’importanza della clientela transnazionale, nella presenza di concorrenti multinazionali, nell’intensità egli investimenti richiesti, nello sviluppo di innovazioni tecnologiche, nella ricerca di riduzioni di costo, nell’affermazione di esigenze e preferenze universali. La capacità di un’impresa di impostare una filosofia internazionale vincente dipende soprattutto – dati per esauditi gli imperativi economici e politici – dalla sua capacità organizzativa, indispensabile per aprire opportunità in base al cambiamento ambientale. Ciò richiede la scelta di meccanismi operativi in grado di ordinare i processi di integrazione e di coordinamento delle attività globali, quindi tali da apportare benefici sotto il profilo della capacità di risposta ai cambiamenti, della capitalizzazione di know-how, del rafforzamento dell’immagine, della capacità di valutazione dei concorrenti, dello sviluppo di relazioni diplomatiche con le autorità locali.
Tra i Paesi industriali l’Italia è uno di quelli a maggior vocazione esportativa nei settori tradizionali, mostrandosi debole invece nei business ad alto contenuto di ricerca e sviluppo, e difendendosi bene nei settori cosiddetti “specialized supplier” (grazie all’abilità di innovazione incrementale adattiva di molte aziende). Per quanto riguarda i classici comparti della moda italiana, l’Italia ha sempre registrato buone performance dovute alla capacità degli esportatori di far leva su fattori di competitività diversi dal prezzo, affermando un’immagine di alta qualità e design del “made in Italy”, congiuntamente all’efficace capacità di commercializzazione e differenziazione dei prodotti, nonché alla possibilità per le imprese di avere accesso ad innovazioni di processo derivanti dai miglioramenti incrementali dei produttori di beni strumentali specializzati “a monte”.
Sono note le ragioni per cui un’impresa è sollecitata ad entrare in un mercato oltreconfine con tutte le minacce ed opportunità che questo comporta. Meno considerata è un’adeguata razionalizzazione delle decisioni di ingresso, la cui carenza costituisce una delle debolezze più marcate del processo d’internazionalizzazione delle aziende italiane. A priori, infatti, dovrebbero essere effettuate scelte precise in relazione allo specifico vettore di crescita (Paese-prodotto-mercato da servire), ai traguardi da raggiungere, alla selezione delle modalità d’ingresso, al disegno del piano di marketing e delle azioni utili a penetrare efficientemente nel nuovo mercato.
Il processo di internazionalizzazione, dunque, deve essere sempre pianificato con attenzione. Soffermiamoci, in particolare, sulle modalità di ingresso, che possono subito essere ricondotte a due alternative a seconda del livello di coinvolgimento internazionale e delle possibilità di controllo prospettate: l’esportazione ed il trasferimento di risorse (internalizzate direttamente nel Paese scelto).
A sua volta, l’esportazione può avvenire direttamente o indirettamente. La prima forma risulta più impegnativa per l’impresa, esposta in prima fila nell’organizzazione delle sue attività all’estero, che gestisce senza l’ausilio di intermediari indiretti, costituendo una rete di distribuzione interna con proprie filiali commerciali ed affidandosi ad agenti e distributori in loco. Con l’esportazione indiretta, invece, l’impresa utilizza i servizi offerti da intermediari indipendenti, i quali operando nel suo stesso mercato di origine si assumono autonomamente il rischio delle azioni promozionali e commerciali dei suoi prodotti. Se l’impresa opta per il trasferimento all’estero delle proprie capacità, deve orientarsi ad alleanze e accordi di natura contrattuale con aziende residenti nel mercato-target oppure scegliere forme di investimento diretto, quindi accettando su di sé l’onere di costituire una filiale produttiva e commerciale nel Paese ospite.
Detto questo, è ora possibile definire la dinamica del processo di internazionalizzazione dell’impresa, che in genere si evolve secondo un percorso piuttosto prevedibile e sequenziale, partendo con l’esportazione indiretta per sfociare infine, passando per vari tipi di accordo e cooperazione, in modalità che le consentano un maggior controllo sulle proprie attività in ottica di consolidamento ed ulteriore sviluppo delle posizioni acquisite. Pertanto, le suddette fasi seriali e le diverse modalità di ingresso in un mercato estero possono raggrupparsi in 4 precise strategie di approccio: la scrematura, la penetrazione, il dumping e l’esplorazione.
Quest’ultima si riferisce all’interesse dell’impresa di stabilire una sua presenza in un mercato estero con l’obiettivo di acquisire esperienze e conoscenze da capitalizzare stabilendo dei contatti a livello locale ed osservando le specificità del mercato a distanza ravvicinata. E’ questo il momento dell’esportazione indiretta e della concessione di licenze produttive. La strategia di scrematura si propone, invece, di far conseguire il massimo ritorno economico finanziario, per cui la modalità di ingresso più coerente è quella dell’esportazione o della concessione di licenze. La strategia di dumping, d’altro canto, rappresenta la via verso l’internazionalizzazione di aziende con sovraccapacità di produzione, in cerca di mezzi per veicolare i loro eccessi, inclusa una politica di prezzo aggressiva. L’obiettivo, come nel caso precedente, è quello di conseguire il massimo delle vendite con il minimo di rischio e coinvolgimento. Da ultima, la strategia di penetrazione si riferisce al tentativo dell’impresa di introdursi all’estero con l’obiettivo di rafforzare le proprie attività con un orientamento a lungo termine e, per questo, è disposta ad impegnarsi in termini di oneri e rischi, decidendo di internalizzare direttamente nel Paese ospite le attività di produzione e di marketing per sostenere un confronto “vis-a-vis” con la concorrenza locale.
A ciascuno il suo, dunque, sperando di aver contribuito con questo articolo a gettare un po’ di luce, se non altro a livello teorico, nella galassia dei mercati internazionali, che tanto a cuore dovrebbero stare ai nostri operatori, sempre alle prese con miriadi di decisioni sensibili.