Intervista a Gilberto Petrucci:The King of Paparazzi
Lo chiamavano “paparazzetto”, perché il più giovane di tutti, lui, Gilberto Petrucci, che assieme a Tazio Secchiaroli, Marcello Geppetti e Ivan Kroscenko fece la storia fotografica del periodo romano de “La dolce vita”. Anni di feste e fasti, di passaggi in Cadillac e spensierate scorribande in cinquantino: tutti lì, a Rione Ludovisi, sparpagliati, in tenuta da movida, tra Doney e Rosati, lì dove più di ogni altro luogo poteva saggiarsi una dimensione internazionale; dove, talvolta, bastava uno scatto ben riuscito per fare ottenere all’ultima delle attricette, l’agognata parte dal produttore hollywoodiano del momento.
Saluta col baciamano il signor Petrucci, uomo d’altri tempi! Ha gli occhi vispi di un ragazzo appena un po’ più grande, l’entusiasmo tra le labbra, e la mente piena di progetti. Eppure di vita ne ha vissuta: dalla sua se ne potrebbero forse ricavare anche altre due. Lo incontro nella Galleria “La Dolce Vita”, che ha da poco aperto i battenti in via Palermo 41, a Roma. Lo spazio è occupato da una mostra permanente dei click più celebri dell’epoca. Lui, dopo il suo rientro da New York, è qui presenza costante, pietra miliare, soggetto preziosissimo.
Ci accomodiamo nella parte retrostante, quella dove sono soliti organizzare gli eventi. Ricorda la sala di un vecchio cabaret su cui sono calate le luci della notte; in fondo alla stanza un grande proiettore. L’orologio punta le ore 18.30 di un martedì di fine febbraio
Lei è stato uno dei fotografi della dolce vita romana, come e quando è cominciata la sua carriera?
Un giorno capitai all’ambasciata messicana e c’era lì un console, mi chiese se conoscessi un fotografo; ribattei -mentendo-, che io stesso lo ero, poi dissi che avrei potuto anche scattare, ma al momento mi trovavo sprovvisto di macchinetta ….; replicò “non preoccuparti, la procuro io!”. Non appena ebbi in mano quell’arnese mi recai di filato dal primo negozio specializzato e, con la scusa di acquistare dei rullini, mi feci spiegare l’impossibile. Il console mi diede appuntamento l’indomani alle nove; scattai le foto poi chiesi di avere le pellicole per ricontrollare, rispose che non c’era tempo, portò via con sé il materiale e ripartì. Inquieto per il risultato, ogni mattina mi recavo dal portiere a chiedere se ci fossero novità, se fosse arrivata una rivista per me …. Dopo qualche settimana la copia giunse al mio domicilio. Lo ricordo come fosse ora, mi appartai in un angolino del cortile, con foga sfogliai le pagine fin quando finalmente il servizio mi apparve, le mie foto erano lì, stampate su carta, con sotto il mio nome.
Qualche tempo dopo eravamo da Meo Patacca, sa, la famosa osteria trasteverina, ad un certo punto vidi una folla dimenarsi senza riuscire a capirne il motivo, poi realizzai: c’era la Soraya ! Sa, la principessa. Come un furetto mi divincolai tra la folla e rubai alcuni scatti. La mattina dopo immediatamente mi recai in testata con il materiale: lo proposi, lo acquistarono. Di nuovo il mio nome!
Ecco, posso dire che questi due episodi consacrarono l’inizio della mia carriera. La realtà è che divenni fotografo molto prima, da bambino. La mia prima macchinetta fotografica fu una scatola di scarpe, e il mio primo obiettivo la lente degli occhiali di mio nonno. Vicino casa mia c’era un rivenditore di pellicole, ne ebbi alcune, le studiai, trascorrevo le domeniche nei negozi di macchinette fotografiche, il mio primo scatto fu una natura morta …
Che ricordo ha di Roma ai tempi della “Dolce vita”?
Via Veneto era uno spettacolo straordinario, alla sera i ristorati e i grandi alberghi erano gremiti di gente. Era interessante osservare come i clienti (noti o meno noti) dalle loro comode postazioni studiavano i passanti, e come a loro volta, i passanti, scrutavano con occhi colmi di avida curiosità i frequentatori dei caffè. Era la via mondana più famosa al mondo, il sogno di chiunque, più di Parigi, più di Londra, più di New York; qui si dava appuntamento il jet set internazionale, c’erano attori, dive, nobili, letterati e persone in cerca di gloria.
Federico Fellini era spesso lì … Una volta mi chiamò, “ Gilbertì, viè qua’!, che fate?”. Replicai “… e che facciamo maè, stiamo qua!”; “ah beh! senti un po’ bello”, domandò “com’è che vi chiamate voialtri che scattate foto scandalistiche”?, Ribattei “ bò, ecchenneso’ maè, come ce chiamiamo ….” Mi disse “sai, sto girando un film intitolato “La dolce vita”, e a voi, io, vi ho battezzato paparazzi. “; “beh, se lo dice lei mae’ allora ce chiameremo così …” Fellini coniò il termine “paparazzo” nell’omonimo film. Da quel momento il vocabolo entrò a far parte del linguaggio comune. Eleggemmo re dei paparazzi Ivan Kroscenko, che nel 1964, donò a me il suo titolo. Era divertente perché tra di noi ci chiamavamo con dei buffissimi soprannomi. Io ero “paparazzetto”, perché il più piccolo di età, poi c’erano: “poca luce” perchè ci vedeva poco; “peperoncino”, perché anche quando indossava lo smoking teneva il peperoncino in tasca; “il maratoneta” perché gli correvano sempre dietro; “Geppo”, ossia Marcello Geppetti; “il nobile” perché era sempre in mezzo ai nobili; “l’affarista”, perché arrivava tardi e acquistava le foto degli altri; “Franco il lungo” perché era alto …
Signor Petrucci, nel corso della sua carriera ha fotografato molte donne. Ce n’è una che la colpì in modo particolare? se sì, perché?
Mi sono rimaste nel cuore due donne: la prima è Giulietta Masina, la moglie di Federico Fellini; una donna di una dolcezza infinita. Una volta le dissi: “sai, cara Giulietta, mi sarebbe tanto piaciuto averti come mamma” e lei replicò “e io, caro Guglielmo, sarei tanto orgogliosa di averti come figlio”. La sua risposta mi colmò di rara felicità.
La seconda fu Ginger Rogers. Per un lungo periodo vissi a New York dove ebbi dei ristoranti. Un giorno venne a cercarmi, voleva conoscermi e avere una foto ricordo assieme a me; mi chiese se sapessi ballare il tango, ribattei: “sì, signora Ginger, ma mica sono Fred Astaire!”, facemmo un giro di ballo, ci divertimmo. Era una donna sicura di sé, allegra e piena di spirito, indimenticabile…
Le donne nel corso degli ultimi anni hanno mutato notevolmente stile e costumi. Qual è la differenza tra una diva dei tempi andati e una donna di successo di oggi?
Trovo che la differenza sia nei modi, nel comportamento; è questo, credo, che genera distinzione.
Vuole raccontarci uno o più episodi curiosi della sua vita da paparazzo?
Mi ricordo un giorno all’ Escargot, sull’ Appia antica. Era il compleanno di Richard Burton, mi intrufolai non so neanche io come nella sala da pranzo e mi accorsi che lui e Liz Taylor si tenevano per mano di nascosto sotto il tavolo con accanto i rispettivi consorti. Sotto lo sguardo incredulo dei miei colleghi riuscii a rubare alcuni scatti: fui il primo a scoprire la loro relazione, e il primo a fotografarli assieme. All’epoca la Taylor aveva una villa sull’Appia Antica ad un paio di chilometri da Burton. Io mi postavo fuori, vestito da prete, con il breviario in mano infilandovi in mezzo la macchinetta fotografica. Il travestimento da religioso era perfetto, mai le guardie del corpo avrebbero chiamato la polizia; potevo fare avanti e indietro quanto volevo senza che nessuno si insospettisse della mia presenza. Un sacerdote può farlo mentre recita le preghiere, chiunque altro, desterebbe sospetti.
Tempo dopo ero a Taormina per i Nastro d’argento, c’erano tutti: c’era Sophia Loren, c’era Claudia Cardinale; c’era Alberto Sordi, c’era Gregory Peck, e di nuovo Richard Burton. Da lontano mi riconobbe e mi chiamò -era in compagnia di Liz Taylor-; mi chiese: “come sta tua madre?” “Sta bene”, risposi. Liz aveva in mano una bottiglietta di profumo e nonostante le sue proteste Burton gliela requisì e me la consegnò. Poi disse: “tieni, Gilberto, this is for your mother”. Così facemmo pace. Io ho fatto sempre la pace con tutti, e tutti mi hanno poi voluto bene.
Un’altra volta i miei informatori mi avvisarono dell’arrivo dei Beatles. Non si sapeva se avrebbero alloggiato all’Excelsior oppure al Grand Hotel invece poi andarono al Parco dei Principi. Mi introdussi fingendomi il newspaper boy, avevo acquistato una copia del Daily News e la consegnai a Paul McCartney. Il giorno dopo tornai, lui mi riconobbe; c’era una palla nel parco, e ci mettemmo a giocare fino alla una di notte. Furioso per il frastuono il portiere ci redarguì e Paul mi chiese di insegnargli una mala parola in italiano, giusto per ribattere. Dopo il concerto all’Adriano, in sala stampa mi intercettò, mi disse di raggiungerlo e di sedere con loro, i Beatles; gli altri fotografi si infuriarono con me, allora prese parola e disse: “ Gilberto resta con noi! E’ nostro amico”.
Un’altra volta ancora ero con Rino Barillari all’ Excelsior, c’era Frank Sinatra. Avevo appena guadagnato uno scatto, uno dei suoi gorilla mi torse con foga il braccio per requisirmi il rullino, mi fece talmente male che dovettero chiamare la guardia medica. Resosi conto della gravità dell’accaduto, mestamente venne da me Sinatra e mi chiese scusa poi, si lasciò fotografare.
Ad un certo punto, complici le contestazioni studentesche del 68’ e l’autunno caldo del 69’, la dolce vita cessò, tuttavia continuò a lavorare come fotografo; stavolta, al seguito di uno dei personaggi più amati dal pubblico italiano, Gianni Morandi.
Con Morandi fu amore a prima vista. Andò così. Mi chiamarono da “Tv Sorrisi e Canzoni” e mi dissero che c’era un cantante emergente, un certo Gianni Morandi che in quei giorni si trovava con la moglie Laura a Fregene. Mi chiesero di fare un servizio e di muovermi perché l’indomani mattina la coppia avrebbe preso un aereo per Milano. Presi di corsa la mia vespa e mi diressi verso il lido. Ero quasi arrivato e la vespa bucò. Percorsi a piedi il tragitto fino al primo meccanico aperto che sostituì la ruota…. Roba da non crederci: bucai di nuovo!. Allora decisi di raggiungere il luogo a passo svelto, tanto ormai ero lì; cercai l’indirizzo in tasca e non lo trovai, nel mentre passarono due ragazze in bici, le fermai e chiesi loro se conoscessero un tale di nome ….. risposero si, che lo conoscevano, “ abita ….”; le implorai di prestarmi il loro mezzo, furono generose, montai in sella, pedalai all’impazzata, e finalmente grondante di sudore, giunsi a destinazione. Gianni mi disse che non c’era tempo di fare foto “stiamo uscendo per andare all’ aeroporto”, insistetti fin quando non riuscii a spuntarla; qualche giorno dopo il servizio uscì e i due furono felicissimi del risultato. Diventai il fotografo personale del cantante dal 1964 al 1978. Andai con lui in tutto il mondo, Parigi, Spagna, Australia, Giappone: cercavamo di mangiare nelle taverne invece che nei ristoranti di lusso per conoscere i sapori del cibo normale. Lui si divertiva a comportarsi da furbetto, cosa che in Italia non poteva fare. Faceva un sacco di scherzi, sai, come quello tipico di inzuppare al bar il proprio cornetto nel cappuccino di un’altro o rubare di bocca la sigaretta a un passante, fare un tiro e poi restituirgliela. La gente rideva, lui si sentiva libero. Era molto legato a me, poi, quando anche questo periodo si concluse, venne tante volte a trovarmi nel mio ristorante a New York.
Il signor Gilberto mi confessa che ha un sogno: organizzare la corsa delle bighe al Circo Massimo! lo ha anche brevettato e spera che qualcuno in futuro lo sponsorizzi. Trussardi in passato tentò di proporgli un business, ma lui rifiutò. Non si tratta di fare affari ma di omaggiare Roma, la sua città.
Nel frattempo, ogni martedì pomeriggio è impegnato in Galleria a fornire pillole di saggezza sull’avventurosa arte dello “scatto matto”.
Voi cosa ne dite, si fa un salto?