La forza del Brand prezioso
E’ un vulcano sempre in attività il mondo orafo e ne sono prova i tanti fenomeni di riconfigurazione strategica, di innovazione tecnologica, di approccio creativo al marketing, di concentrazione aziendale, di alleanze finanziarie e commerciali, che stanno coinvolgendo un crescente numero di imprese. Uno dei cambiamenti più sensibili in atto riguarda le politiche di marchio, le quali dopo aver interessato il settore della moda, ridefinendone energicamente gli assetti, ora stanno seducendo il business dei preziosi.
Il nuovo scenario, in sostanza, sancisce per le aziende di gioielleria la necessità di adottare un brand, di investire i margini di profitto nell’acquisizione e fidelizzazione di nuovi clienti, di sviluppare produzioni terziste di qualità e, per le attività a minor valore aggiunto, di attuare eventuali decentramenti in aree a ridotto costo della manodopera e dei servizi.
A fronte di tale contesto dinamico, possiamo comunque ravvisare oggi quattro precise tendenze connotanti il panorama orafo italiano: 1) i più affermati stilisti di moda diversificano ulteriormente il loro portafoglio di iniziative, lanciandosi anche nel settore della gioielleria; 2) le maggiori imprese del settore sono in prevalenza guidate da un management profondamente consapevole del must imposto dal mercato per la creazione e la valorizzazione costante di un marchio forte; 3) alcuni solidi produttori di gioielleria decidono di “servire” il mercato lavorando, oltre che per il proprio marchio, su commissione altrui; 4) qualcuno comincia a soppesare concretamente l’opportunità di progettare marchi collettivi, ad esempio di distretto.
Gli stilisti, dunque, stanno entrando massicciamente nel settore orafo, sfruttando le sinergie tout-court determinate dai loro apparati fashion, in particolare nel campo della comunicazione. E mentre Bulgari compie il percorso inverso, espandendosi orizzontalmente dai gioielli alla profumeria, agli orologi, alle cravatte ed altri accessori, couturier di fama come Valentino, Armani, Versace, Gucci procedono inversamente, ma parallelamente, penetrando con grandi mezzi nello scrigno dei preziosi e divenendo così anche “marchi orafi”, supportati da licenziatari attivi nella distribuzione. Alla base di questo nuovo scenario vi sono naturalmente i produttori terzisti, i veri protagonisti del futuro del comparto, destinati a prosperare, ma a rimanere sconosciuti al pubblico.
D’altro lato rileviamo sempre più aziende orafe, soprattutto di medie e grandi dimensioni, impegnate nella “costruzione” e promozione di un brand di valore. Sembra questa, infatti, la via ideale da seguire per guadagnare posizioni competitive specie sui mercati internazionali, dove la leadership italiana è perennemente messa a dura prova dalle sfide sferrate da agguerriti concorrenti. Non pochi produttori in questa situazione, che vede anche un ridotto peso della missione di alcuni grossisti di primo livello – volti a contenere i costi del servizio al trade – avvertono dunque l’esigenza di integrarsi a valle saltando le prestazioni dei suddetti grossisti e di servire direttamente il dettaglio. All’integrazione verticale è ricorsa, del resto, De Beers con LVMH, includendo le fasi di estrazione e affinazione sino alla distribuzione finale.
Non potendo competere efficacemente sui prezzi, molti produttori orafi italiani scelgono di puntare sul marketing, in particolare di privilegiare azioni di rafforzamento del marchio, strumento in grado di trasmettere nettamente al consumatore la percezione di un alto valore aggiunto, legato a qualità superiori e design. Ma non solo. Ciò che si vuole comunicare al proprio target di clienti deve essere la proposta di un preciso stile di vita e di un particolare modo di essere in cui identificarsi.
Un marchio, in pratica, deve essere tale da “vendere” al consumatore l’intera azienda!
Nell’arco di pochi anni un fabbricante deve essere in grado di compiere la propria metamorfosi in brand, da solo o aggregandosi ad altri, altrimenti non gli resta che fungere da terzista o licenziatario. E c’è chi per decisione spontanea ed autonoma si pone al servizio del mercato governato dai marchi, operando nella produzione pura. Un futuro contromano? Non alla luce della ragione. In effetti, se si parte dalla constatazione che marchi di straordinaria potenza (come Dior, Chanel, Gucci, De Beers-LVMH, per citarne alcuni) sono privi di un proprio sistema di manifattura, si deduce quanto sia rilevante il ruolo che la “fabbrica” può giocare per loro conto. Sempre più aziende, quindi, scelgono di completare la catena del valore, lavorando professionalmente sia per sé che per altri e garantendo in ciò un’elevata qualità, nonché efficienza organizzativa e perizia artigianale.
Infine, non mancano i fautori dell’idea di creare un “marchio di distretto”, attuabile però solo a condizione che si superino egoismi di bottega e si manifesti maggior apertura mentale. “Made in Vicenza” o “made in Valenza” come garanzie plus di qualità? Il sentiero è percorribile, anzi è logico ed obbligato, sostengono alcuni, specialmente come rimedio alla mancanza di un’identità di mercato da parte di tante piccole realtà produttive, eppure solide, vitali e pienamente legittimate a rappresentare la ricchezza di tradizioni, valori e suggestioni secolari di cui sono portatori i distretti di appartenenza. Un marchio forte da condividere fra più operatori attribuirebbe a tutti gli aderenti maggiore prestigio e visibilità, sottraendoli dall’anonimato e connotandoli positivamente. In virtù di una siffatta iniziativa comune sarebbe altresì possibile contenere i costi dell’investimento. Ancora più vincente, poi, potrebbe rivelarsi per le imprese del comprensorio orafo l’adozione di un doppio brand, ovvero di un marchio individuale da affiancare a quello collettivo come ulteriore elemento distintivo ed identificativo di valore.