La Milano metafisica di Giulio Scapaticci
In un quadro c’è qualcosa che non vedi e che mai vedrai, impossibile da definire: l’anima, l’intuizione del senso originale delle cose, l’espressione di ferite personali. Così la pensava Giulio Scapaticci (1933-2006), il più poetico dei pittori che hanno raffigurato Milano, città metafisica negli anni ’50 e ’60, con le sue caratteristiche case di ringhiera, gli onirici paesaggi urbani dai colori tenebrosi, le periferie industriali fosche e desolate, campi e cascine senza tempo, umili oggetti quotidiani, ma anche immagini inquietanti di macellerie dove sono appesi quarti di bue e pesci, sospesi nel vuoto di un esistenzialismo sartriano. A questo artista dallo sguardo lirico capace di illuminare il presente con le più sottili memorie, l’Università Bocconi ha voluto dedicare una delicata mostra visitabile sino al 23 Giugno.
I suoi tratti di pennello non mirano alla mera riproduzione di una realtà esteriore, spesso percepita come ostile per il suo demoniaco potere di destrutturare la personalità umana, ma corrispondono alla ricerca di un senso, forse un tentativo di rappresentare concretamente la sua avversione al male della modernità che porta alienazione, solitudine, angoscia. Nella sua pittura ciò che apparentemente è figurativo e formale si tramuta nell’informale delle emozioni e dei sentimenti, un grattare la superficie delle cose, un dialogo essenziale tra spirito e materia, tra forma e sostanza, tra arte e vita. Per sentire di esistere, di essere una parte del tutto, di contribuire alla salvezza del mondo, nel suo piccolo.
Pubblico e critica hanno riscoperto la poetica grandezza di Scapaticci, riconoscendo che le sue sono sempre state immagini coerenti e affascinanti, efficaci nell’evocazione di ambienti e situazioni morali, stati d’animo tradotti in visioni di città fantastiche, come se fossero pagine di un amaro diario esistenziale. Si potrebbero anche paragonare a palcoscenici interiori allestiti sulla scorta dei ricordi e in virtù di una profonda sensibilità, così che questi sfondi vengono ad essere una snervata, inacerbita rielaborazione dei paesaggi dell’animo. Vi si riflettono in modo talvolta struggente i pensieri, i sentimenti, le speranze, le delusioni del pittore, che nei confronti dei suoi quadri si sente completamente responsabile come uomo oltre che come artista.
I colori di Scapaticci sono morbidi, le atmosfere spesso languide e malinconiche, le luci vive e vibranti. Della sua arte è stato detto che è “una lucida elegia, un lieve stupore, uno smarrimento di un tempo psicologico e poetico, di cui la pittura restituisce una traccia, un simbolo, una reliquia d’inconscio, il cielo di un ricordo” (Stefano Crespi), “un lirismo del disincanto” (Vittorio Sgarbi), “una testimonianza lirica inquieta” (Leonardo Borgese), “una musica interiore, una qualità visionaria nel dato reale, con accenti metafisici di sospensione e attesa” (Mario Lepore).
Giulio Scapaticci fu uno dei più significativi esponenti di quella corrente pittorico-politica che venne battezzata “realismo esistenziale” (di cui furono protagonisti anche Vaglieri, Banchieri, Ceretti, Romagnoni, Ferroni, Guerreschi e poi Cazzaniga, Luporini, Martinelli). Studente a Brera con il maestro Aldo Carpi, partecipò a svariate mostre. Dopo gli anni giovanili di cantore della “Milano lirica”, si trasferì nel Pavese negli anni ’70 per assaporare le rasserenanti suggestioni artistiche di un mondo ancora bucolico. Negli anni ’80 però decise di rientrare nel capoluogo lombardo, per dar voce all’afflitta umanità che lo innerva, con i suoi disagi e la sua solitudine, le sue disperazioni e i suoi sogni sofferti, trasognata e trasfigurata metaforicamente sulla tela in muri desolati e in banali insetti, che rendono subito l’idea di una precarietà fisica prima ancora che metafisica.
Un altro grande milanese, Carlo Emilio Gadda, affermava che “il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà” e, qualche secolo prima, l’illuminato Voltaire aveva sentenziato che la metafisica “è il romanzo dello spirito”. Scapaticci dipingeva appunto “il morto corpo della realtà” per scrivere il “romanzo dello spirito”; anzi, la sua pura poesia.