La Moda che fece l’Italia
Si avvicina il 150° anniversario dell’Unità d’Italia ed io vorrei ripercorrere il “sogno” risorgimentale attraverso la moda del secondo ‘800.
Era il Marzo 1848 quando Milano insorgeva contro gli Austriaci e l’intera sua popolazione, con nobile eroismo, si batteva per la propria libertà con ogni mezzo, compreso l’abbigliamento. In particolare, il giornale cittadino “Il Corriere delle Dame”, che vantava molti abbonamenti in tutta la Penisola, divenne uno straordinario strumento di propaganda patriottica, esercitando una forte influenza sul costume e sugli usi mondani (specialmente nei ceti più alti). Nata come resoconto e commento degli spettacoli scaligeri, mescolando melodramma e moda, bel canto e bella vita, la pubblicazione si rivelò in quel momento il punto di innesco di un’autentica “rivoluzione” nel guardaroba sia maschile sia femminile.
Il numero uscito con la data del 18 Marzo riferiva di un clima teso, poco incline a lussi e vanità, per cui riteneva opportuno proporre “un modesto abbigliamento per gramaglie”, ancorché “bellissimo”, sconsigliando invece abiti da sera eleganti.
Il 30 Marzo, poi, prescriveva cappelli “alla calabrese” e abiti di velluto a coste (questi ultimi prodotti esclusivamente in Lombardia, a Vaprio d’Adda) in evidente polemica con i panni di lana provenienti dagli asburgici Paesi di Austria e Germania. Si badi che il cappello “alla calabrese” era addirittura vietato dal Governo, a seguito delle sollevazioni popolari del Febbraio precedente. Veniva considerato, infatti, suscitatore di echi verdiani, richiamando il copricapo “all’Ernani”. La sua forma a cupola cilindrica con ala rialzata di lato o sul retro, caratteristica del costume del principe-bandito e dei suoi uomini, venne presto adottata da tutti i volontari che, da ogni regione d’Italia, giungevano a Milano per sostenere la causa degli abitanti in lotta.
Pare, però, che fosse poco gradito alle signore, in quanto troppo appariscente. “Il Corriere delle Dame” suggeriva loro, piuttosto, di indossare come segno di contestazione una sciarpa di pizzo bianco, a coprire la tipica acconciatura da contadina lombarda, ovvero con le trecce alzate sulla nuca, ornate di spilloni d’argento.
L’importante era evitare ogni ostentazione o sfarzo e preferire semplici “vestiture di confidenza”, più adatte ad affermare il vero spirito nazionale. Erano ammessi, quindi, gli abiti neri con relativa mantellina o scialle quadrato di cachemire (per chi se lo poteva permettere), il mazzolino di fiori tricolore usato a mo’ di coccarda, e come tessuto iconico quello scozzese caro alla Regina Vittoria, simbolo di un popolo fiero che aveva combattuto per la propria indipendenza.
Contemporaneamente, a Torino, il giornale locale “Il Mondo illustrato” riportava la notizia di un ballo presso l’Accademia Filarmonica, in cui erano stati presentati due modelli, uno per uomo e uno per donna, di abiti qualificati “all’italiana”. Dal figurino maschile pubblicato si evince che si tratta dell’abbigliamento definibile “alla lombarda”, vale a dire con cappello piumato “all’Ernani” e tessuti di velluto “nazionale” per abiti stretti alla vita da un’alta cintura (a cui gli uomini appendevano la spada).
Racconto qualche curiosità, a questo punto, sul “look” del sopra evocato Giuseppe Verdi, il popolarissimo musicista che, in virtù del ruolo acquisito dalla sua opera, a ragione può essere definito “l’impolitico che unì l’Italia”. Egli non fu certamente un uomo “alla moda”: vestito sempre di scuro, anche al culmine dei suoi trionfi teatrali non dismise la “mantellina” di origine paesana, che forse gli ricordava il tabarro indossato nella natale Busseto, le cravatte di seta nera legate a fiocco, i capelli a zazzera, il cappello a tesa rotonda e grandi ali da alzare e abbassare a propria discrezione (che “Il Corriere delle Dame” descriveva come idoneo per la campagna, simile a quello “che portano i paesani della Linguadoca”), il paletot di panno pesante (reputato dal medesimo giornale di moda un indumento “a dispetto del buon genere”, indicato solo per cocchieri, infermieri, parrucchieri: sic!). Si può ben dire che le uniche concessioni ai dettami della moda Verdi le fece per i ritratti, dipinti o fotografici, come quello celeberrimo eseguito da Boldini nel 1886, in cui il Maestro appare con un elegante cilindro di feltro e una pregiata sciarpa bianca di seta con qualche linea di colore.
Quanto alle signore, l’iconografia ottocentesca ce le mostra in genere “imbozzolate” in corsetti rigidi e dominate da vistose strutture a palchi sovrapposti, che dallo chignon dei capelli sfociano nelle crinoline delle vesti. Finché Charles Frederick Worth non lanciò nuove fogge, sparigliando i codici estetici. Egli propose, in particolare, l’unificazione della parte superiore e inferiore (“princess”) e una sorta di “corazza” che blindava la silhouette in una morsa ferrea, benché costellata di delicati merletti.
Dame da combattimento? Il verbo dell’insurrezione sembrava pervadere anche la moda in quel fiammeggiante XIX secolo, che del resto aveva visto i trionfi della pasionaria “Salammbô”.