La moda oltre la crisi: da dove ripartire?
Apre una finestra su una giornata poco luminosa il Convegno “La moda oltre la crisi. Quali strategie per competere nel nuovo scenario di mercato”, organizzato da Pambianco Strategie di Impresa in collaborazione con Intesa Sanpaolo, lo scorso 3 novembre.
Michele Norsa – a.d. di Ferragamo – sintetizza la situazione attuale in questo modo: “Eravamo immersi nella nebbia, ora si è diradata; ma il futuro non è chiaro”. Pochi i segnali di speranza emersi dal Convegno, mentre è emersa in tutta la sua urgenza la necessità di lavorare seriamente: bisogna confrontarsi e rassicurarsi, perché, come sottolinea il Presidente della Camera della Moda, Mario Boselli, i segnali di ripresa sono deboli.
Anche se la tenuta delle imprese ha del sorprendente in realtà afferma Boselli: “Stiamo andando troppo lentamente e con cali di fatturato del 20-30% per molte aziende riuscire a tenere è davvero difficile. Soprattutto senza il sostegno del credito. I bilanci del 2009 saranno per forza orribili e questo sarà il momento più delicato: le banche devono cambiare atteggiamento, non possono guardare solo i numeri”. Dallo studio su un campione di 525 imprese, realizzato da Intesa Sanpaolo e Pambianco e presentato nel Convegno stesso da Gregorio De Felice, Chief economist Intesa Sanpaolo, i dati che emergono non sono positivi: nel 2009 i ricavi delle aziende del segmento moda scenderanno ancora del 6,3% e la chiusura di quest’anno sarà con forti perdite di fatturato e di redditività. “La contrazione dei fatturati a consuntivo 2009 – ha detto De Felice – sarà tale da portare a severi rischi di uscita di un numero non trascurabile di imprese, soprattutto quelle piccole, con una nuova riduzione della base produttiva italiana nel settore”.
Forse la fase più acuta della crisi è ormai alle spalle e forse – avverbio necessario per disegnare con realismo e con un pizzico di speranza la situazione – si può parlare di ripresa a partire dal 2010, ma i mercati manterranno per molto tempo una fase di immobilità. Per i prossimi cinque anni, infatti, la crescita sarà piatta: solo in seguito si potranno raggiungere i livelli del 2007. Per ora, anche se “i segni di miglioramento e di uscita dalla fase di recessione ci sono, la ripresa sarà lenta e piena di incognite” e – conclude De Felice – “avremo sì una ripresa, ma con fattori di debolezza; le tensioni competitive si accentueranno, mentre la contrazione dei fatturati in questo momento è tale che qualche impresa potrebbe non farcela. Mi auguro, però, che questa previsione sia totalmente sbagliata”. Tra i fattori di debolezza, il Chief economist di Intesa Sanpaolo indica l’eccesso di capacità produttiva che frena gli investimenti in capitale fisso, e non aiuta a ridurre la disoccupazione; oltre alla volatilità dei cambi e alla debolezza del dollaro che non favoriscono l’export.
Michele Tronconi – Presidente del Sistema Moda Italia – ha esordito con un invito a pensare a dopo la crisi ed ha lanciato un allarme raccolto nel corso della giornata dai vari ospiti e relatori intervenuti: “Pensiamo a cosa saremo dopo se non avessimo più la filiera produttiva, perché se venisse a mancare il retroterra produttivo della filiera, alla fine crollerebbe anche l’impresa principale”. Anche Boselli ha lanciato un appello “a mantenere in piedi ad ogni costo il sistema manifatturiero di questo Paese“. Tra gli ospiti delle tavole rotonde c’è chi vede che il problema della filiera produttiva si tocca già con mano. Dice Claudio Orrea, presidente e a.d. di Patrizia Pepe: “Noi veniamo da Prato, il 70% del nostro prodotto è fatto in Italia, ma vediamo che molte aziende stanno chiudendo. E’ questo che mi preoccupa di più del futuro. Rischia di scomparire un saper fare unico, frutto di un sistema complesso che racchiude molte competenze specialistiche”. Lo stesso Diego Della Valle ribadisce la necessità “di dare una mano per tenere in vita le piccole aziende del made in Italy, vera ossatura industriale del Paese, detassando la ricerca e rendendo accessibili anche a loro i mercati internazionali”. Il problema del made in Italy aggiunge Franco Penè per Gibò è che “grossa parte della filiera sta scomparendo. Saremo costretti ad andare in Cina non per una questione di costi, ma perché in Italia non ci sarà nessuno che vorrà fare questi lavori”. E Brunello Cucinelli suggerisce di investire sui giovani per entusiasmarli a fare mestieri artigianali necessari alla filiera.
Devono far pensare i seguenti dati: dei 39 distretti industriali in Italia, solo 2 hanno registrato una crescita dell’export nel primo semestre 2009. Carpi per maglieria e abbigliamento e la concia di Arzignano.
D’altra parte non possono non preoccupare i dati sull’esportazione: la diminuzione complessiva delle esportazioni è di – 19, a fronte di un’importazione dalla Cina cresciuta del 15%. I settori che hanno sofferto di più sono indubbiamente il tessile, con ricavi di – 22,4% rispetto al 2008 e l’oreficeria, con – 23,4%.
Ma quali possono essere i rimedi? Nel suo intervento, Mario Boselli ha indicato tre fattori positivi che potranno dare un po’ di respiro alle aziende: la moratoria dei debiti che è stato il segnale tra banche e imprese di voler presidiare un patrimonio comune; l’avviamento dell’iter per l’approvazione a livello comunitario dell’opzione 2 del “made in” obbligatorio per le merci di provenienza extra Ue e l’apertura del Governo sull’Irap. “La mia proposta – ha detto – non è quella di abolire l’Irap, ma quella di rinviarne il pagamento per un anno, una sorta di stand still in attesa di modificare sostanzialmente tale imposta; un intervento simile a quanto fatto dalle banche”. Non è l’unico suggerimento di intervento del governo. Michele Tronconi, ad esempio, propone che, oltre a una diminuzione della pressione fiscale, le imprese possano pagare meno l’energia. Si è anche accennato – specie nelle tavole rotonde – ad un appoggio di promozione del made in Italy e di agevolazioni per poter promuovere il prodotto italiano in nuovi mercati.
Altri rimedi e suggerimenti sono venuti nel corso della giornata dalle testimonianze degli intervenuti, ma anche dalle indagini condotte da Pambianco sul modo di affrontare il dopo crisi. Le risoluzioni fondamentali per affrontare il momento sono da rendere attivi dandosi subito da fare. “Ora o mai più – è la sfida che lancia Diego della Valle – anche perché dobbiamo ricordarci che non siamo soli nel mondo, e che i francesi sono molto bravi. I prodotti eccellenti non sempre sono sufficienti per vincere la competizione, anche se c’e molta gente nel mondo che ha una gran voglia di cose italiane. Sono importanti anche altri fattori, per esempio il turismo. E poi auguriamoci che quando qualcuno viene a fare le vacanze in Italia trovi il treno che funzioni, l’albergo pulito e nessuno che gli rubi la borsetta».
Ristrutturarsi per riequilibrare il rapporto costi/guadagni; ma anche generare utili dall’attenzione ai costi. Contenere i costi e contrarre i margini; diversificare il mercato, pensare anche ad andare verso mercati difficili. La crisi può offrire opportunità impensate, “si entra in zone difficili a costi minori” suggerisce Marco Marchi di Liu Jo. Come pure prendere atto con realismo della situazione dei mercati, del cambio di abitudini che sta portando il consumatore a consumare meno, ad essere più attento al rapporto qualità/prezzo. Si tratta di un cambio strutturale. “Abbiamo messo il consumatore al centro” dice Giuseppe Miroglio “da azienda industriale ci siamo trasformati in azienda che si occupa di retail per essere vicini al cliente e con la flessibilità necessaria per rispondere alle sue esigenze. Ci siamo ristrutturati anche nel senso di porre fine ad aree produttive e a punti della filiera non efficienti.” Una ristrutturazione che non pregiudica il posizionamento del marchio.
Ricapitalizzarsi. Ciò potrà avvenire in modi diversi, come suggerisce Pambianco, con private equity, entrando in borsa, attraverso finanziamenti bancari, con una ricapitalizzazione da parte della famiglia di controllo, oppure entrando in un gruppo, tenendo però presente che in questo momento c’è una stasi delle acquisizioni. Di quest’ultimo ne parla principalmente Marzotto sotto la spinta dell’acquisizione ultima di Ratti.
Michele Norsa di Ferragamo racconta che per far fronte alla crisi, ed essendo un’azienda globale, Ferragamo si è concentrata nei paesi dove ancora c’è crescita, dei Paesi Bric sicuramente la Cina rappresenta ancora un mercato con grandi potenzialità, anche se è un mercato che bisogna capire come affrontare. I tagli maggiori per Ferragamo sono stati sulla pubblicità.
In definitiva, i due gruppi di imprenditori intervenuti – che rappresentano situazioni diverse – hanno evidenziato elementi comuni ed elementi più specifici. Nella prima tavola rotonda hanno partecipato Paolo Fontanelli di Furla, Maurizio Carlino di Carpisa, Brunello Cucinelli, Enrico Bracalente di NeroGiardini, Claudio Orrea di Patrizia Pepe, Marco Marchi di Liu Jo e Franco Pené di Gibò. Le osservazioni rilevate da questo gruppo sono state: l’importanza di continuare a investire sulle risorse umane, la necessità di una maggiore vicinanza ai propri clienti, mantenere gli investimenti nella pubblicità e le nuove prospettive offerte dall’e-commerce, argomento introdotto da Furla.
Nella seconda sessione di dibattito sono intervenuti Michele Norsa di Salvatore Ferragamo, Giuseppe Miroglio del Gruppo Miroglio, Vittorio Radice de La Rinascente, Stefano Sassi di Valentino Fashion Group, Sergio Tamborini di Marzotto Groupe e Diego Della Valle di Tod’s in videoconferenza. Molto in sintesi, i concetti sono stati quelli di mantenere il posizionamento del brand, guardare con attenzione ai mercati emergenti alternativi ad Usa e Giappone Cina in primis, ma osservare anche l’America Latina, mettere più al centro il consumatore, mantenere la qualità del prodotto, ma rivedere anche la politica dei prezzi; cambiare, infine, il modello di business per mantenere la propria posizione.