L’anello debole tra il politically correct e la moda
Non vi sembra che stiamo esagerando con il politically correct che ha investito (anche) la moda? Ormai non passa settimana in cui qualche marchio fashion non finisca nel tritacarne mediatico per accuse di discriminazione razziale o sessismo. Talvolta a ragione, talaltra (forse il più delle volte) in modo pretestuoso. È il caso, per esempio, di un charm di Prada raffigurante una faccia scura con grandi labbra rosse, subito tacciato di razzismo per la somiglianza al clichè caricaturale degli africani.
Il fatto è che la moda, sempre alla ricerca di novità, è facilmente destinata ad urtare la sensibilità di singoli o di gruppi – sempre più consapevoli e sempre più suscettibili – non foss’altro che per il mero sospetto di appropriazione culturale, per cui è quanto mai esposta sia a livello creativo sia a livello comunicativo agli strali degli uni piuttosto che degli altri. E la possibilità di condividere tutto sui social non fa che acuire il fenomeno. Pertanto, in un contesto globale in cui i consumatori esigono che i brand di cui acquistano i prodotti siano al di sopra di ogni ombra o dubbio, le maison devono impegnarsi a dismisura nel prevenire ogni eventuale effetto boomerang.
Dicevamo di Prada, ultimo in ordine di tempo ad essere messo sul banco degli imputati per la sua presunta tendenza a stereotipare le sembianze delle persone di pelle scura. In effetti il contestato portachiavi per borsa (appartenente alla linea “Pradamalia”) poteva evocare il caratteristico “Blackface” grottesco, da molti ritenuto oltraggioso nella sua parodia iperbolica, e puntuale lo scandalo è scoppiato su Facebook, divenendo subito virale, per iniziativa di un avvocato del Centro per i Diritti Costituzionali di New York. A seguito di numerose reazioni offese, Prada ha quindi deciso di ritirare immediatamente dal mercato non solo il charm, ma anche una serie di accessori e abiti che riproducevano la medesima faccia.
L’azienda, arroccatasi sulla difensiva, ha spiegato con un apposito comunicato stampa: “I Pradamalia sono charm fantasia costituiti da elementi Prada. Si tratta di creature immaginarie che non intendono riferirsi al mondo reale e certamente non alla Blackface. Il Gruppo Prada non ha mai avuto l’intenzione di offendere nessuno e noi aborriamo tutte le forme di razzismo e immagini razziste. Ecco perché rimuoveremo tutti i personaggi in questione dalle nostre vetrine e dai nostri negozi”.
Comunque una circostanza è ormai chiara a tutti: per i marchi sembra affatto inutile cercare di giustificarsi affermando di non aver avuto intenti razzisti (ci mancherebbe!); quello che importa è avere una capacità di reazione fulminea, sapendo che in caso contrario i danni potenziali saranno incalcolabili, come ben sanno Dolce & Gabbana. Infatti la loro lentezza nella risposta – incongrua, ritardata e forse poco convinta – ha nuociuto non poco all’immagine del brand in Cina, suscitando una “tempesta perfetta” che ha unito alle polemiche sullo spot con la modella cinese armata di bacchette e cannolo siciliano (“troppo grande” per lei) l’indebita pubblicazione su Instagram di alcune esternazioni sopra le righe di Stefano Gabbana, fino alla clamorosa cancellazione della mega-sfilata in programma a Shanghai.
Diciamolo francamente: lo spot incriminato di Dolce & Gabbana, più che razzista e maschilista, era solo brutto e dappoco! E questo sconsiderato sgarbo estetico e sapienziale gli derivava essenzialmente dal richiamo di fastidiosi luoghi comuni, una tendenza a cui il duo di stilisti siculo-milanesi ha spesso dimostrato di indulgere volentieri. Basti pensare alle campagne pubblicitarie con la banalità di pizze, spaghetti e mandolini per rappresentare il Sud; oppure ricordiamo certe scene di donne anacronisticamente sottomesse, che molti – compreso il Garante per l’autodisciplina pubblicitaria – hanno interpretato come un incitamento allo stupro.
Per chiamare in causa anche altri designer incappati nella tagliola del politically correct, come non citare gli scivoloni antisemiti di un John Galliano in crisi etilica, che provocarono addirittura il suo licenziamento da parte di Dior?
Non solo case di moda d’alta gamma, ma anche quelle di pret-à-porter possono comunque finire nella tempesta, come è successo alla svedese H&M che su un catalogo online ha mostrato l’immagine di un ragazzo di colore con indosso una felpa su cui c’era scritto: Coolest monkey in the jungle. Non parliamo poi dell’utilizzo di nomi che possono evocare concetti religiosi, come hanno imparato a loro spese la medesima H&M e Mango, i quali hanno dovuto ritirare dal commercio articoli con scritte che avrebbero potuto suonare blasfeme a qualche ipersensibile orecchio. Anche Zara venne accusata di razzismo per aver proposto una minigonna su cui appariva una rana somigliante al simbolo dei suprematisti americani. E la milanese BigUncle è stata addirittura imputata di apologia del colonialismo per il suo omaggio stilistico all’epopea del West! Si è arrivati a sottoscrivere una petizione online per costringere l’azienda a ritirare la collezione in oggetto appellandosi all’art. 3 della carta costituzionale! Non c’è da stupirsi dunque se alcuni anni fa Adidas decise di non lanciare sul mercato le scarpe JS Roundhouse Mids griffate da Jeremy Scott perché le loro catene di gomma arancione potevano evocare a qualcuno i ceppi alle caviglie degli schiavi neri.
In definitiva, oggigiorno i marchi devono essere molto più vigili e coscienti delle conseguenze che le campagne pubblicitarie e di marketing possono provocare. E il pubblico, lungi da ogni parossismo, dovrebbe allenarsi alla moderazione contrastando gli eccessi polemici dovuti alla permalosità, al moralismo, all’astio fine a se stesso, più che all’integrità etica, alle vere istanze democratiche ed al sano spirito rivendicativo in nome della giustizia, dell’uguaglianza e della solidarietà.