Le perle di vetro
Le perle veneziane sono elementi decorativi di particolare fascino in ogni epoca, che studi recenti hanno giustamente valorizzato, sottolineandone gli aspetti non solo estetici, ma anche economici e culturali tout court. Qui vorremmo appunto raccontare la storia delle perle di vetro. Specialmente nel periodo Liberty, assecondando i trend di moda, esse furono ampiamente utilizzate dalle Muse dello stile sia in Italia che all’estero.
A Venezia, allora, le manifatture più significative ed innovative erano quelle dei Moretti e dei Franchini, che andavano sperimentando creazioni sempre più ardite e fantasiose, dal punto di vista sia cromatico sia artigianale. Nascevano così le celebri perle lavorate “a lume” con intarsi straordinari, spesso di soggetto floreale, impreziosite da “fili buttati”. Queste poi, negli anni ’30, vennero utilizzate di frequente intercalate da elementi vitrei appiattiti (in genere monocromatici ed eseguiti con un semplice filo di vetro fuso attorcigliato attorno ad un perno centrale), che fungevano da distanziatori e, nello stesso tempo, facevano risaltare la bellezza delle perle stesse.
La vetreria veneziana, dopo l’eclissi produttiva provocata dalla guerra, rifiorì splendidamente negli anni ’50, quando cominciò a produrre le perle “pezzate”, realizzate con inserti in foglia d’oro o d’argento ricoperti con una breve colata di colore trasparente. A volte, queste perle venivano anche “schiacciate” con pinze speciali. E fecero la loro comparsa con successo anche perle di grandi dimensioni, in vetro soffiato: tra queste, attenzione particolare meritano i pezzi realizzati non con la tecnica del lume, bensì direttamente in fornace con una metodologia d’esecuzione simile a quella impiegata per i “finali” dei lampadari. Poi fu la volta delle perle ritorte (frutto di un semplice movimento compiuto con una pinza apposita), meglio conosciute come perle “a sventola”, in tutte le varianti cromatiche e di decoro.
Intanto, il progresso scientifico e tecnico portava ad un progressivo perfezionamento dei colori e vedevano la luce, così, mediante la fusione di canne vitree arrotolate a gomitolo su un filo di rame, le perle “venate”, solitamente in sfumature pastello o alabastro. E nascevano le perle “a marmorino”, secondo metodi di colorazione a caldo in fornace.
Inoltre, la perla veneziana si appropriò di una tecnica tintoria di antica tradizione egizia e fenicia: sulla base colorata venivano “buttati” fili sottili in nuance contrastante o in avventurina, poi tirati con un piccolo uncino. Queste murrine, che talvolta presentavano anche piccoli inserti a forma di fiore, erano dette “strasinàe” (cioè “trascinate”).
Sul far degli anni ’60, nelle vetrerie della Serenissima trionfarono soprattutto le perle soffiate a lume, in grado di offrire un’amplissima gamma di soluzioni, dalla foglia d’oro o argento alla mezza filigrana, alle canne dritte, all’uso di inserti di murrine, al rigadin, al balotòn, nomi – questi ultimi, di per sé eloquenti (rigato l’uno, a palla l’altro).
Ai produttori di bijoux italiani e stranieri le perle giungevano direttamente dalla Laguna (e da fornaci dell’entroterra veneto) sia sfuse, quindi da montare (di consueto su collane o bracciali) sia già infilate in matasse e mazzi di fili. In quest’ultimo caso, provenivano direttamente dalle abili mani delle cosiddette “impiraresse”, le donne veneziane che infilavano le perle (già selezionate per colore, dimensioni e tipologia). I loro canti a stornello sono tuttora rimasti in voga a Piazza San Marco, dove il business delle murrine continua ad essere più che mai fiorente.
Le origini della perla come ornamento si perdono nella notte dei tempi. Sappiamo che a Venezia (specialmente a Murano) fu attorno all’anno 1000 che iniziò questo tipo di lavorazione con il vetro (molti vetrai veneti vi si erano rifugiati dall’interno per sfuggire alle invasioni barbariche).
Da sempre esse sono eseguite secondo due metodi di base: da canna forata e da canna massiccia. Nel primo caso, si preleva un bolo di vetro, lo si sagoma, lo si fora longitudinalmente con pinze speciali in modo da ottenere una sorta di tubo. Il bolo viene poi ricoperto con altro vetro ed allungato, consentendo di ottenere sezioni circolari tanto più sottili quanto maggiore è l’allungamento. A seconda, così, della sagomatura e degli strati di colore sovrapposti, si hanno perle a sezione multicolore e “disegnate” come se fossero murrine forate (si veda la deliziosa “rosetta”).
Partendo, invece, da una canna vitrea massiccia, si realizza la tecnica a lume: al calore di una lucerna, supportata da un mantice, il vetro rifonde e genera un filo che viene avvolto attorno ad un’asta di metallo, formando un gomitolo, che viene lavorato con pinze e stampini fino ad ottenere la sagoma desiderata. Tra le varianti di questo tipo di tecnica, ricordiamo quella a foglia d’oro o d’argento, quella dell’applicazione di murrine sul nucleo principale per creare perle “millefiori” o “a mosaico”. La lavorazione più caratteristica, però, è quella della perla “fiorata”, con il bolo principale decorato dal disegno realizzato con un sottile filo di vetro colato da una cannula.
Le perle di vetro, che a Venezia erano generalmente chiamate “conterie” (dal latino “comptus”, che significa conto, ornato) sono note con nomi diversi, a seconda del tipo: brovadini (specie di perle non ben arrotolate, di forma cilindrica), Bulgari (dal nome della celebre dinastia orafa romana; miscuglio di perle del medesimo colore e misura diversa), burattini (miscuglio di perle di vari colori e stessa misura), ceraspagna (perla tratta da una canna a due strati, uno interno giallo ed uno esterno in rubino all’oro), corniole (al contrario delle precedenti, hanno lo strato interno bianco e quello esterno giallo o acquamarina o in rubino in selenio o in rubino all’oro), perle “con la sottana” (lo strato interno è di qualità scadente, spesso nero, mentre quello esterno pregiato, solitamente rosso coppo).