Leonor Fini. Ego sum

E’ una mostra che si avverte come necessaria quella in corso al Palazzo Reale di Milano su Leonor Fini, visionaria artista italo-argentina di notevole spessore culturale, estremamente versatile e animata da un forte afflato di libertà, intelligentemente anticonformista, aliena agli stereotipi e indenne dai compromessi.
“Io sono Leonor Fini” – questo il titolo – si propone fino al 22 giugno come una delle retrospettive più complete mai dedicate a questa figura dirompente nel panorama artistico del XX secolo rimasta per decenni sconosciuta al grande pubblico. Curata da Tere Arcq e Carlos Martín, la mostra reinterpreta il suo eclettismo ed estro ribelle attraverso nove sezioni tematiche che indagano le radici visive, le ricorrenze iconografiche e i concetti chiave della sua produzione multiforme, spaziando dalla pittura alla moda, dalla letteratura al teatro fino alle arti applicate.
Il percorso espositivo, arricchito da numerosi inediti provenienti anche da collezioni private, restituisce la legittima complessità di un’artista che, pur operando attivamente nel proprio tempo, ha sempre rifiutato di piegarsi ai diktat intellettualistici e al pensiero mainstream. Un’indipendenza di cui sono specchio i suoi temi favoriti: in primis donne in ampie vesti, dalle amazzoni alle maghe, dalle guerriere alle streghe, per arrivare a fate, dee, sfingi, chimere e alchimiste, fino alle gatte come alter ego della stessa artista. Attraverso queste immagini, la Fini esplorava l’identità, l’erotismo, la metamorfosi e il delicato equilibrio tra potere e fragilità.
Leonor Fini non si definì mai appartenente al gruppo surrealista, ma ebbe molti punti di tangenza con tale movimento, a cominciare dall’istanza di emancipazione sociale e dall’affinità strutturale nella concezione narrativa delle sue composizioni, in cui domina l’autorappresentazione, ispirata comunque da modelli personalissimi mutuati in parte da paradigmi fiamminghi e romantici. Con le sue figure, sovente riflesso del proprio volto moltiplicato, l’artista ribadiva le innumerevoli sfumature che convivono nell’essere donna, sottraendola così a qualsiasi definizione univoca.
Un altro elemento di coerenza con il surrealismo è l’attrazione per il mondo onirico e fantasmagorico, l’attenzione per la duplicità, la maschera, la finzione come scudo contro la temuta mancanza di identità. Da rimarcare anche – in linea con i valori del surrealismo – la forte passione socio-politica della Fini, che rivendica il diritto all’amore, al sogno, all’espressività del linguaggio, contro le convenzioni, le credenze tradizionali che legittimano il razzismo, lo sfruttamento della natura, il prevalere degli eccessi capitalistici, il militarismo, il patriarcato, l’autoritarismo istituzionale.
Nata nel 1907 a Buenos Aires da padre italiano, Leonor Fini si traferì da bambina a Trieste, fervente centro culturale dell’impero austro-ungarico, con la madre Malvina che la sottrasse al padre dopo un’ardua separazione. Suggestionata da infiniti stimoli intellettuali in quel vivace ambiente di stampo mitteleuropeo, Leonor Fini si innamorò del decadentismo locale, restando affascinata soprattutto dalle scoperte della psicoanalisi di matrice freudiana. Da qui il suo interesse, ricorrente in tutta l’opera, per i poli spirituali Eros-Thanatos.
Autodidatta in arte, ma introdotta adolescente in ambiti creativi triestini da pittori che le fecero da maestri e ispiratori, la Fini si formò visitando musei ovunque ed espose i suoi primi lavori in gallerie a Milano, prendendo parte poi alla Biennale di Venezia.
Nel 1931 si trasferì a Parigi e, sostenuta da Filippo De Pisis, espose alla Bonjean, diretta da Christian Dior, allora gallerista prima di diventare couturier. Fu Dior a presentarle in seguito la celebre stilista Elsa Schiaparelli, con cui la Fini strinse un’amicizia fruttuosa e fertile, disegnando per lei la boccetta del profumo Shocking, ispirata al busto dell’attrice Mae West, divenuta iconica (a cui si sarebbe ispirato Jean Paul Gaultier per la sua nota fragranza decenni dopo).
Leonor Fini continuò ad esporre proficuamente negli anni, entrando in contatto con alcuni grandi artisti e personaggi creativi come Pablo Picasso, Max Ernst, Helmut Newton, Dalí, Miró, tra gli altri. Fu nel 1936 che conquistò la scena mondiale con la partecipazione alla leggendaria esposizione Fantastic Art, Dada and Surrealism organizzata dal Museum of Modern Art di New York. Del surrealismo, come accennato, Fini si appropriò degli elementi più rivoluzionari: la sfiducia nella ragione come logica cartesiana, la cifra onirica, l’stinto sessuale come motore primario, reinterpretandoli però in una visione femminile originale e innovativa, ad esempio approcciando la questione del genere in un modo che oggi sarebbe forse considerato “politically uncorrect”, difendendo fermamente l’irredimibile diversità tra il femminile e il maschile.
Gli anni ’40 segnarono una svolta sia personale che artistica per la Fini, che incontrò il diplomatico-artista Stanislao Lepri e il letterato Constantin Jelenski, con i quali visse un armonioso ménage à trois di grande proficuità intellettuale. Nel 1941 dipinse La Bergère des sphinx, opera emblematica del suo microcosmo artistico, dove una pastora è circondata da sfingi femminili, tra ossa e gusci d’uovo, simboli della metamorfosi naturale. La sfinge divenne il suo contraltare, non più dispensatrice di enigmi secondo la tradizione greca, ma guardiana della vita, incarnazione di saggezza e potere femminile. Misteriosa, questa creatura immaginifica invita ad accedere ad un mondo dove il fantastico si sovrappone all’introspezione profonda, facendo risuonare in ogni essere umano ciò che si cela in una figura mitica.
Estetizzante nel senso più morale del termine, definendo la categoria del bello con il buono, la pittura della Fini fu sempre intrisa di esoterismo, alchimia ed eccentricità, intesi come mezzi per l’elevazione personale.
Durante la guerra, Fini frequentò a Roma il vivace salotto culturale di Elsa Morante, con la quale allacciò un intenso scambio epistolare, e poi Anna Magnani, Alida Valli e altre personalità come Mario Praz, Alberto Savinio, Fabrizio Clerici. Allo stesso tempo praticò Jean Cocteau, con cui condivise il fascino per l’arte fantastica e il simbolismo, Federico Fellini al quale prestò alcune idee per la realizzazione di costumi per una scena di Otto e mezzo e Pierpaolo Pasolini, compagno di un fecondo viaggio a Parigi, nonché Luchino Visconti, che la coinvolse nella creazione dei costumi per produzioni teatrali e liriche.
In effetti, la dimensione teatrale permeò tutta l’opera di Fini, anche perché in essa infuse la sua pittura di temi legati al travestimento e all’identità mutevole. I magnifici costumi che creò per il Tannhaüser e gli elaborati bozzetti per la Scala rendono conto di una straordinaria poliedricità.
Negli anni Settanta Fini si dedicò soprattutto alla letteratura con opere come “Le livre de Leonor Fini” e “Rogomelec”, mentre intensificava il suo lavoro come scenografa e costumista per prestigiosi teatri europei, collaborando con registi del calibro di Giorgio Strehler. Dopo la perdita degli amati compagni, Lepri e Jelenski, la sua arte assunse toni più eterei e contemplativi. Si spense nel 1996 a Saint-Dyé-sur-Loire, lasciando al mondo un patrimonio artistico difficile da catalogare, caratterizzato da un instancabile desiderio di affermazione identitaria e di libertà, ma soprattutto di bellezza interiore da riversare all’esterno.








