Less is more
Il motto del celebre architetto tedesco Mies van der Rohe – meno è più- ci porta alle radici di uno dei principali movimenti artistici della post-modernità, diffusosi nell’ultimo decennio del XX secolo anche nell’ambito della moda. Ci stiamo riferendo alla corrente Minimalista, movimento che vede la sua affermazione ufficiale con una mostra risalente al 1966, ospitata dal Jewish Museum di New York e intitolata “Primary structures”. È la prima volta che gli artisti minimalisti espongono in una collettiva le proprie opere, con la possibilità di dichiarare al mondo i risultati di una lunga ricerca estetica iniziata nel dopoguerra e protrattasi negli anni sulla base di principi e valori condivisi. L’adozione del termine minimal, in riferimento a tale movimento artistico, lo si deve a Richard Wolheim intorno al 1965, il filosofo- esteta che considerò la paradossale mancanza di contenuto artistico come la base estetica di tale corrente, in un chiaro rinvio al ready-made di Duchamp.
Il Minimalismo considera la riscoperta di forme geometriche, pulite, lineari e semplici come un ritorno all’arte pura e allo stesso tempo come il possibile punto di partenza per un nuovo modo di fare arte, in netta contrapposizione all’astrattismo e all’espressionismo astratto. Semplificazione è certamente la parola d’ordine del movimento, semplificazione delle forme, dei colori, della ricerca dei materiali, insomma ritorno ai significati più antichi e ormai reconditi di arte come armonia delle forme. Parallelamente tale corrente viene anche considerata il primo grande prodotto artistico della post-modernità, l’era che ha fatto del consumo la sua stella polare e il motore di ogni cosa. Gli artisti minimalisti si fanno interpreti di tale rivoluzione culturale attraverso l’utilizzo di residuati metallici industriali, rottami e materiali di scarto, assemblati in forme talmente inaspettate da modificare la percezione dello spazio dell’osservatore.
In quanto percezione della realtà e reazione ad essa, il movimento tocca i più disparati ambiti intellettuali facendo della purezza delle forme il suo principale vessillo. E come la stragrande maggioranza delle correnti artistiche, soprattutto se pensiamo alle avanguardie del “˜900, anche la Minimal Art arriva in passerella, grazie alle geniali interpretazioni di nomi del calibro di Zoran, come antesignano, Calvin Klein, Miuccia Prada e Jil Sander.
In risposta ad un precedente decennio ricco di stravaganze, colori ed eccessi stilistici, gli anni ’90 inaugurano il debutto di uno stile in netta rottura con la preziosa esuberanza delle passerelle precedenti, un tentativo di associare il vero lusso alla povertà decorativa. Le forme sono pure, lineari e i colori non fanno che enfatizzare tale semplicità attraverso le cromie del kaki, beige, nero e bianco. Bando al trucco, ai gioielli e bando soprattutto ai tacchi. Il dato da sottolineare è la studiata intenzionalità di tale purezza, ossia la minima e puntigliosa cura dei dettagli più impercettibili, finalizzata però al raggiungimento di un capo apparentemente scevro di qualsiasi tipo di studio o cura estetici. La sartorialità e la precisione dei tagli sono sicuramente ben visibili, anzi in tal caso diventano elementi qualificanti di questa nuova moda, ma l’effetto desiderato in termini di fashionability- per dirla alla maniera anglosassone- ne tradisce il minuzioso lavoro precedente. A guardar bene, è un po’ questa la filosofia retrostante al successo e alla fama mondiale di un marchio come Prada, da sempre capofila di un elegante minimalismo, senza rivali in termini di innovazione, ricerca e studio delle forme e dei materiali. Miuccia Prada è riuscita a fare di tale pratica l’elemento distintivo della sua moda e a costruirci non solo un impero economico, ma- cosa più importante- un patrimonio culturale e stilistico unico nel suo genere e destinato sicuramente all’immortalità.