L’eterno ritorno dell’animalier
Anche quest’inverno torna a “ruggire” nella giungla urbana lo stile animalier, più felino e sensuale che mai. Da Dolce & Gabbana a Roberto Cavalli (ça va sans dire), da Ermanno Scervino a Blugirl, dai big del lusso alle catene low cost come Zara, non c’è maison o quasi che non proponga fantasie maculate e tigrate.
Non solo giacche e gonne, bluse e pantaloni, cappottini e abiti (da giorno o da sera, la stampa non cambia), ma anche e soprattutto gli accessori si coprono dei mantelli delle belve più feroci: ecco, allora, i wild spirits di borse, calzature, foulard, cappelli, occhiali, bijoux e persino biancheria intima.
Sarà che le donne avvertono l’istinto e l’esigenza di apparire (se non di essere) più aggressive o comunque più decise e grintose, fatto sta che il pattern a macchie, zebre e squame furoreggia ovunque. E non è una novità, anzi.
In verità, l’ animalier è sempre stato il cavallo di battaglia dei nostri couturier più “trasgressivi” (absit iniuria verbis), attratti dal lato “dionisiaco” e carnale della donna, vista come creatura cosciente della propria femminilità, intraprendente e “predatrice”, del tutto emancipata e desiderosa di affermarsi rompendo vecchi e nuovi tabù.
Non a caso questo stile fece il suo ingresso imperioso nella moda a fine ‘800 con il movimento inglese detto Aesthetic Movement, che lo adottò per promuovere una donna estroversa, colta, sulle ali della modernità. Poi fu la volta di Ertè, lo stilista di Sarah Bernhardt divenuto “Monsieur Belle époque”, che coprì di pelli, piume e macchie i corpi femminili, ricreandoli scenograficamente. Ma fu soprattutto Christian Dior colui che sdoganò in passerella la fantasia animale con la mitica collezione primavera/estate 1947, in cui le modelle sfilavano con passo felino avvolte dalla leggerezza serica di un sensuale chiffon leopardato.
L’idea piacque molto alle dive dell’epoca che la fecero loro, a partire dalla “selvaggia” Ava Gardner per arrivare alla più “angelica” Audrey Hepburn. Ma i grafismi animalier incontrarono i gusti anche degli stilisti italiani, talvolta decretandone il successo planetario: si pensi a Valentino nel 1987 incoronato “king of the fashion jungle” sul quotidiano “Toronto star”; si pensi ancora a Gianni Versace, che lo profuse a piene mani in modo trionfale nel prêt-à-porter maschile delle sfilate milanesi autunno-inverno ’92-’93. Nel frattempo era arrivato sulla scena pure Roberto Cavalli e forse nessuno come lo stilista fiorentino ha fatto di questo “concept” la sua specialità, ovvero il marchio di fabbrica elettivo: largo allora alle stampe ghepardata, zebrata, leopardata, a farfalla, squame di pesce, coccodrillo, lince, serpente. Non poteva che essere Cavalli, di fatto, sponsorizzare la mostra “Wild: Fashion Untamed” svoltasi nel 2004 al Metropolitan Museum of Art di New York, che mirava a documentare nel tempo la potenza simbolica e icastica dell’animalier, mediante le creazioni di grandi personaggi come Alaïa, Dior, Galliano, Gaultier, McQueen, Mugler, Versace.
Attenzione, comunque: esteticamente l’animalier non è per tutte/i; si badi a non apparire ridicole/i con qualche eccesso seppur involontario. Ci vuole misura e, soprattutto, si ricordi che nel mondo animale qualcuno finisce sempre per essere preda!