L’illusione e il disincanto in passerella
E’ il film di una moda che fugge da se stessa, dalla gabbia della sua natura temporale, quello appena visto sulle passerelle milanesi: una moda che è cosciente della crisi e, giusto per questo, sogna rielaborando il suo passato prossimo esteticamente un po’ spigoloso e cialtrone. Del resto, se la contingenza storica è questa e l’anarchia culturale ci fa spacciare per esperienze psico-fisiche elitarie finanche i detersivi del grande magazzino, non resta che guardare indietro ai momenti dorati, disinvolti e arditi (vedi il ritorno prepotente del sexy archetipico, interpretato con afflato alquanto retorico).
E, dunque, largo alle citazioni esotiche, applicate però agli stilemi occidentali più classici (per la serie “tutti a casa con l’immaginario, dopo il giro del mondo”), con qualche spiraglio sulla capacità dimostrata da taluno di abbandonare gli stereotipi e giocare al rialzo, rischiando anche l’impopolarità, in attesa che la spietata selezione naturale faccia il suo corso… e che, intanto, i cinici imperativi economici non svuotino di sostanza la creatività.
Forse, dovremmo tutti imparare (finalmente) ad esprimerci in termini di stile più che di moda, rinunciando al nuovo a tutti i costi, se non altro perché inventare è frutto di una congerie socio-culturale complessa e non di un aire stagionale.
Un altro fatto, però, mi colpisce soprattutto. Chi negli ultimi anni ha seguito le varie sfilate che letteralmente affollavano il calendario (in una città tanto ambiziosa quanto incoerente e miope in termini di strategia progettuale), confondendo le idee e sottraendo dignità alla moda stessa, ha sovente avuto l’impressione di assistere alla scena di Nerone che suona la lira mentre Roma brucia. Troppi stilisti, in effetti, sebbene non finanziariamente solidi, si sono illusi che la passerella fosse la bacchetta magica per affermare la propria esistenza nel metafisico fashion world. Quest’anno, invece, complice la crisi, pare destinato ad avviarsi un certo processo di razionalizzazione dei calendari. E pure il linguaggio della comunicazione suona meno spettacolare e televisivo, sofisticando il lusso per chi resta a praticarlo.
Non tacerò, tuttavia, sul fatto che, sfumata la “nuova sensibilità” che sembrava scaturita dalle macerie dell’11 Settembre, buona parte della moda continua ad esaltare il vuoto e l’inutilità come tratti arroganti del suo discorso, ignorando il presente e mantenendosi a galla in un brodo di coltura, che come fior di loto fa assopire i suoi transumanti addetti ai lavori (dall’occhio cannibale talmente satollo da aver ormai fagocitato tutto, desiderio compreso).
Che, comunque, sia in atto un mutamento epocale è sotto gli occhi di tutti, sia di quanti perseguano la poetica della dissociazione sia di quanti optino per l’assoluta eleganza architettonico-cromatica nel più impeccabile understatement. E se è vero che cambiare fa paura, è altrettanto vero che il dover cambiare può indurre ad un innalzamento dei contenuti, oltre che delle mere forme, svincolandoli dall’estetica pacchiana dei mass-media e dallo straniamento cronologico di questo momento nebuloso, dai freni inibitori tirati.
Così, se restano in pochi a sapere a chi si stanno rivolgendo e che senso dare alle cose, ora più che mai la parola d’ordine diventa “serrare le fila”, puntando, per non farsi troppo male, sul binomio qualità-prudenza. L’importante è passare il guado: per farsi notare, meglio attendere la prossima diligenza sulla passerella.