L’imprevedibilità della bellezza
Può essere bello un oggetto industriale? Se intendiamo la bellezza come una qualità che nasce dal confronto con la natura e persegue un’integrazione il più possibile armonica tra aspetti tecnologico-funzionali e qualità estetico-formali, la risposta è indubbiamente sì.
Sì, ma è vera bellezza quella di un macchinario ovvero di un bene strumentale? In realtà l’oggetto tecnico, sconfinando dall’ambito strettamente funzionale per cui è concepito, diventa oggetto di apprezzamento estetico per i suoi richiami formali e sostanziali ai valori originali, che a loro volta sono suscettibili di fornire ispirazione artistica e suscitare incanto. Il senso di fascino e stupore che si prova, ad esempio, dinanzi alla sezione di un dispositivo elettronico, con i suoi molteplici elementi, la sorprendente minuzia del design, i colori brillanti, è forse la stessa provata dai nostri antenati di fronte al fuoco. Decontestualizzato, persino un inverter può acquistare una nuova dimensione come modello statico/museale che provoca una sorpresa avvincente.
Oggi la fruizione della bellezza è estremamente diversificata essendo alla base di fenomeni come la moda ed il culto del corpo (ciò che Gilles Lipovetsky ha definito “l’impero dell’effimero”); eppure, la fascinazione per la fisicità meccanica continua a coinvolgerci potentemente in una sorta di incantesimo tecnologico. Enfatizzando la componente meccanica alla luce della forma, in un incontro ravvicinato con un pezzo uscito da una catena di montaggio e poi passato nelle abili mani di un tecnico, si comprende come la bellezza sia un mistero, la cui imprevedibilità si può incontrare persino in una scienza esatta e “fredda” come può essere l’ingegneria, che evoca prima di tutto l’idea di velocità e interpreta il linguaggio ideale del dinamismo.
In effetti lo straniamento dall’habitat d’uso originale che spinge l’oggetto tecnico verso aree della percezione inaspettatamente prossime al bello e al godimento estetico si può cogliere in forme che nascono dall’esigenza di trasformare l’energia, quindi il movimento dell’universo stesso.
Nella nostra cultura e società non si è ancora pienamente consapevoli del fatto che l’estetica scaturisce in buona parte dall’industria. E’ nelle macchine che si definiscono le proporzioni, i giochi dei volumi e dei materiali, cosicché alcuni dispositivi possono configurarsi come vere opere d’arte, in quanto implicano l’ordine, la proporzione, la misura, ovvero la bellezza nella concezione umanistica e rinascimentale più pura.
Forse aveva torto Théophile Gautier allorché affermava che “quando una cosa diventa utile, cessa di essere bella”.
Alla luce di tutto ciò, è stato senz’altro interessante visitare presso l’Università Bocconi a Milano una mostra dedicata all’estetica dell’eccellenza industriale (“L’Eccellenza Nascosta – L’industria italiana tra il 1978 e il 1996”), in cui MIA Photo Fair esponeva gli scatti di Edward Rozzo, fotografo industriale e docente dell’Università stessa nei corsi di innovative retail design e cinema e teoria sociale.
In verità, quando si parla di eccellenze italiane il pensiero corre subito alle immagini della moda o del design, dimenticando che c’è tutto un mondo dietro quella vetrina, un mondo che ne rappresenta la sostanza: le fabbriche e le persone che le hanno realizzate. È ciò che nella sua trentennale attività ha cercato di raccontare Rozzo, il quale proprio dell’estetica del processo industriale ha fatto la propria cifra stilistica. Egli, a differenza di tanti colleghi impegnati come lui nella corporate photography, non è mai stato interessato a documentare, per esempio, il conflitto sociale insito nella produzione: “Ho sempre vissuto la fabbrica come luogo dell’orgoglio dei lavoratori e nei miei lavori ho sempre cercato di rappresentare il processo industriale nel suo lato estetico. Ero affascinato dalla bellezza della complessità insita in esso”.
Questo impatto estetico, fatto di macchinari o di dettagli della produzione, era ben visibile nelle molte fotografie che MIA Photo Fair ha portato in Bocconi: i suoi lavori, quindi, rompono con le figure stereotipate che spesso hanno contraddistinto la rappresentazione dell’industria italiana, che si limitano a documentare (si tratti di gomma, moda, auto di lusso o macchinari di precisione), e creano immagini iconiche, dove la realtà si trasforma in colori e forme.
“La bellezza è un enigma” (Fëdor Dostoevskij).