L’ultimo Imperatore
Comunque, tra tutte le operazioni portate sinora a termine da gruppi stranieri nel Belpaese, l’affare Loro Piana si distingue per la sua valenza strategica eccezionale: il marchio piemontese rappresenta in effetti l’intera catena produttiva del lusso, primo al mondo per volumi e qualità di filati e tessuti prodotti, in grado inoltre di vantare un pregiato brand di abbigliamento con una propria rete di punti vendita in tutto il pianeta (130 negozi), capace di macinare un fatturato da 700 milioni di euro (previsti per quest’anno). Quindi, un campione del lusso in senso assoluto, capace di assurgere a benchmark della filiera dell’eccellenza italiana.
Ecco perché LVMH con Loro Piana ha fatto un vero “colpaccio”, suscitando tanto clamore: chi, seppur preoccupato per la perdita di italianità, ha plaudito all’iniziativa in ottica di ulteriore valorizzazione e sviluppo dell’azienda, chi si è stracciato le vesti deprecando il fatto che la famiglia Loro Piana, dopo sei generazioni, abbia ceduto i suoi “gioielli”. I Loro Piana, dal canto loro, hanno dichiarato: “Il gruppo diretto da Bernard Arnault è quello maggiormente in grado di rispettare i valori della nostra azienda, la sua tradizione e il desiderio di proporre ai suoi clienti dei prodotti di qualità ineccepibile. Associandoci al gruppo LVMH, costruito intorno ad un insieme di marchi storici, Loro Piana trarrà beneficio da sinergie eccezionali, sempre preservandone le tradizioni”.
Molto duro, invece, il commento di David Pambianco in un editoriale dal titolo forte (“Attacco al sistema. E di sistema”), in cui tra l’altro affermava: “Non era passata che una manciata di ore dal titolo in prima pagina del Corriere economia, in cui Brunello Cucinelli, uno tra i più in voga tra gli imprenditori del lusso, dichiarava: Non siamo un Paese in vendita. Non erano passati che un paio di giorni dalla sprezzante uscita di un altro big del lusso nazionale, Giorgio Armani, che commentava l’acquisizione della caffetteria Cova come Si tratta solo di cioccolatini. Non erano passati che un paio di mesi da quando il sistema della moda italiana aveva proclamato la volontà di fare, anzi di essere, per davvero sistema, portando al vertice della Camera nazionale della moda alcuni di quei nomi che sempre ne erano rimasti ai margini. Proprio tra i consiglieri di quella nuova Camera di sistema, un posto è stato riservato a Sergio Loro Piana, uno dei due fratelli che hanno deciso di vendere la maggioranza della storica azienda di famiglia per 2 miliardi di euro. Per “il bene dell’azienda”, hanno ripetuto… L’annuncio dell’acquisizione di Loro Piana, dunque, ha cancellato una lunga serie di ipocrisie nei confronti di ciò che da almeno un decennio è la strada imboccata dal made in Italy. Il sistema nazionale – leggi, le istituzioni pubbliche – si diletta a lanciare iniziative con aeromobili che portano in giro i circensi del made in Italy, o a lanciare nuove iniziative fieristiche a Milano (l’ennesima esposizione), dopo essere rimaste assenti (il sindaco Giuliano Piasapia) all’intera settimana delle sfilate. E mentre in questo si impegnano, il made in Italy cambia bandiera”.
Anche i più critici però riconoscono che alla fine gli stranieri, se da un lato ci portano via le imprese migliori (comunque valutandole con multipli altissimi, come ha pure dimostrato il caso Valentino-Qatar), dall’altro hanno la capacità di valorizzare le opportunità nascoste nella filiera del made in Italy. Tanto Arnault quanto Pinault (Fendi docet) hanno dato prova di saper ottenere il massimo dagli ormai numerosi marchi italiani acquisiti, comprendendo alla perfezione l’importanza di quel sistema territoriale e culturale in cui quelli erano nati e da cui traevano linfa.
E’ un paradosso, ma è così, come sintetizza bene la giornalista di moda Paola Bottelli: “Chi pensa che Loro Piana trasferirà in Francia la produzione di cashmere non ha capito nulla. I Francesi non hanno più la filiera tessile-abbigliamento e concia-calzature-pelletteria: infatti fanno produrre qui o, addirittura, comprano aziende e marchi. LVMH ha un intero distretto calzaturiero a Fiesso d’Artico, sulla Riviera del Brenta, dove lavorano 400 addetti. Ma anche Chanel e Dior fanno realizzare in Toscana le borse, e gli esempi potrebbero andare avanti a centinaia, coinvolgendo marchi Usa e inglesi. Il serbatoio manifatturiero del lusso è qui ed è questa competenza unica al mondo nella qualità che andrebbe difesa e valorizzata”.
In definitiva, non sono gli stranieri a carpirci le aziende, siamo noi che non sappiamo tenercele! Non sappiamo ampliarle, capitalizzarle, svilupparle, promuoverle, come richiederebbe il mercato oggi… Una possibile via d’uscita è ravvisabile forse nel cosiddetto “quarto capitalismo”, ossia quello delle imprese di fascia dimensionale intermedia: recuperare la dimensione del distretto industriale per delineare strategie a lungo termine a favore delle piccole imprese che da sole non ce la fanno ad affrontare i problemi della distribuzione internazionale, dell’innovazione, della formazione, ecc. Noi Italiani siamo bravissimi a creare marchi di lusso, ma stentiamo ancora a capire che solo l’unione può fare la vera forza.