Made in Italy: una sfida per il futuro
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 abbiamo assistito alla nascita e allo sviluppo definitivo della grande industria del pret a porter italiano, che ha reso il concetto di Made in Italy una garanzia di innovazione, qualità e funzionalità a livello internazionale. Se i grandi nomi del fashion system italiano hanno potuto decollare e affermarsi nel dettare tendenze di stagione in stagione, lo si deve prima di tutto al tessuto economico e produttivo che caratterizza il nostro paese, unico nel suo genere sia per dimensione che per capillarità.
L’Italia si è sempre distinta dalle altre economie mondiali per una piattaforma industriale costituita in larga parte dalla piccola e media impresa, da una miriade di aziende, molte delle quali a conduzione familiare, che fanno leva su un sapere e un’artigianalità trasmessi di generazione in generazione e supportati da valori condivisi.
L’industria della moda è un settore in continua evoluzione, nel quale il concetto di cambiamento è essenziale per poter progredire e per riuscire ad assicurarsi un successo e un vantaggio competitivo sostenibili nel lungo termine. Inoltre, la principale caratteristica di questo comparto dell’economia, che contribuisce ogni anno ad un saldo positivo della bilancia commerciale, è la stagionalità: le aziende della moda e del lusso sono chiamate a presentare annualmente due principali collezioni, accompagnate nella maggior parte dei casi da altre sotto collezioni, i cosiddetti flash, la cui quantità muta a seconda del tipo di azienda coinvolta. Si può facilmente intuire, quindi, come almeno due volte l’anno i processi operativi di produzione, distribuzione e comunicazione ripartano da zero, con nuovi contenuti e nuove dinamiche.
A fronte di una tale complessità, è quanto mai necessario che l’intera filiera sia efficientemente integrata, sia che l’azienda operi in una condizione di perfetta integrazione verticale, sia che trasferisca a terzi fasi nodali dell’intera catena, a maggiore o minore valore aggiunto.
Ed è a questo punto che si palesa il ruolo e l’importanza del nostro apparato produttivo, in particolar modo dei tanto discussi distretti, che rappresentano una delle molteplici eccellenze del Bel Paese. Ci stiamo riferendo a realtà industriali dislocate in diverse zone della penisola e costituite da una lunga serie di piccole e piccolissime aziende specializzate in particolari lavorazioni tessili e posizionate, in qualità di terzisti o façonisti, in più punti della filiera produttiva.
L’artigianalità, l’attenzione al dettaglio e alle rifiniture, la naturale propensione alla qualità e l’innato gusto del bello sono i motori di crescita di queste realtà industriali, senza le cui competenze le grandi griffe della moda italiana avrebbero stentato ad imporsi come arbitri dell’eleganza mondiale, assicurando una qualità e una funzionalità costanti. Grazie al lavoro congiunto e all’impeccabile organizzazione di artigiani specializzati, ancora oggi i più importanti nomi del fashion system svolgono in Italia quelle fasi del processo produttivo a maggior valore aggiunto. Il distretto si presenta quindi come un imprenditore collettivo, in cui il connubio fra competizione e cooperazione diventa una garanzia di successo per l’etichetta del Made in Italy.
Ultimamente però il dibattito sulla valenza effettiva di tale concetto si fa sempre più acceso. Ne sono testimonianza gli incontri promossi dalle riviste e dagli enti specializzati o ancora le azioni di tutela indette dalle categorie di settore. In ogni caso, ci si interroga su cosa realmente significhi, nel XXI secolo, Made in Italy, dato il devastante impatto che la globalizzazione ha avuto non solo sulla nostra economia, ma anche sui nostri usi e costumi, operando un’azione di completa massificazione dell’offerta e di conseguenza una totale omologazione dei gusti e delle scelte dei consumatori.
Di conseguenza, in un panorama di tale complessità, diventa necessario capire su quali elementi far leva, per raccogliere le continue sfide del mercato globale. A differenza degli anni ’70 e ’80 in cui imperversava il total look e gli stilisti erano osannati e considerati dei veri e propri profeti in fatto di eleganza, oggi il consumatore non accondiscende più supinamente ai dettami dei designers, ma vuole essere arbitro incontrastato delle proprie scelte e della propria immagine. Carpisce quindi le mode del momento, ma le declina in maniera unica e personalizzata in base al proprio stile, mescolando input provenienti dalle più disparate realtà.
È per questo motivo che le aziende della moda e del lusso, ad oggi, non sono più in grado di prevedere con assoluta certezza il bacino clienti di stagione in stagione, né sono nelle condizioni di poter delegare alla forza storica del brand il loro successo. L’unica arma che hanno a disposizione è l’innovazione, sia sul fronte prettamente tecnico sia su quello comunicativo ed emozionale. Col passare del tempo, la necessità di giungere a nuovi metodi di lavorazione o all’utilizzo di nuovi materiali diventa sempre più stringente, considerando la sfrenata concorrenza proveniente dalle economie emergenti, che hanno sviluppato, in tempi ridottissimi, delle piattaforme produttive che minacciano i vecchi colossi industriali. Questi Paesi traggono vantaggio da un basso costo della manodopera, da misure fiscali agevolate e da vincoli ambientali meno stringenti. Tutti privilegi di cui i nostri stessi imprenditori hanno goduto delocalizzando, negli anni, diverse fasi della catena produttiva, seppure a minor valore aggiunto.
Da tale quadro economico internazionale, risulta chiara l’urgenza di innovare, sul profilo dei processi e dei prodotti, forti di una tradizione e di un’artigianalità di cui le nuove economie sicuramente non dispongono, in quanto manchevoli di quel “genius loci” che ha permesso all’Italia di inventare un nuovo metodo di fare moda e di imporsi come arbitro incontrastato del pret a porter internazionale.
Oggi più che in altre epoche, si pone la necessità di fare sistema, di creare aggregazioni aziendali che permettano un’equa divisione dei costi e la creazione di economie di scala, al fine di implementare processi innovativi, supportati da un solido impianto di ricerca.