Mali di stagione
Segnale negativi hanno turbato sul finire del 2016 i sonni degli operatori del fashion system italiano, a cominciare dal rallentamento delle esportazioni (calate in Marzo del 5% per l’abbigliamento e del 3,5% per la pelletteria), per proseguire con l’allarmante rallentamento dei consumi in USA. Se a ciò aggiungiamo il ping pong dei creativi, che ormai vanno e vengono dagli uffici stile delle maison con la velocità delle meteore, i nodi ancora irrisolti delle politiche digitali, la “crisi di identità” delle sfilate, il rapporto “sballato” qualità/prezzo, ci rendiamo conto che le aziende della moda hanno parecchi grattacapi in questo momento. Ma se Milano accusa il colpo (trovandosi a metà del guado nella ridefinizione delle proprie strategie), né Parigi, né Londra, né New York possono ridere, essendo tutti in difficoltà e alle prese con i medesimi problemi, più o meno.Viene da chiedersi se, in mezzo alla confusione regnante (che va dai calendari delle passerelle al numero astronomico dei brand o aspiranti tali), esistano ancora delle aziende-modello a cui possano guardare con credibilità, fiducia e spirito di emulazione tante piccole e medie imprese della filiera della moda Made in Italy.
Guardando ai dati sull’andamento delle vendite al dettaglio di abbigliamento e calzature in Italia, il sorriso non spunta, anzi. La ripresa è in affanno, con previsioni dei consumi in crescita solo dell’1% sia nel 2016 che nel 2017, come stimato dall’Ufficio Economico Confesercenti. Nel 2015 la spesa delle famiglie italiane in articoli di moda si è assestata sui 60 miliardi di euro (un modesto 6,5% sul totale della spesa familiare). Se qualche cenno positivo si intravede, esso riguarda quasi esclusivamente la grande distribuzione ed i negozi online (+23,5% di vendite), mentre continua l’emorragia delle boutique indipendenti.
Sempre secondo i dati di Confesercenti, nel 2015 le esportazioni di abbigliamento hanno registrato un risicato incremento del 2,1% ed il saldo con le importazioni ha continuato la cura dimagrante, assestandosi su 5,2 miliardi, quasi mezzo miliardo in meno del 2014. E’ incoraggiante però la notizia del reshoring, ossia il ritorno in patria delle attività manifatturiere dopo la delocalizzazione (quasi la metà delle imprese che appartengono al settore della moda), a dimostrazione del fatto che il know-how del territorio supera i vantaggi del risparmio dei costi.
Un motivo di speranza potrebbe venire dal “plus” dell’italianità, un valore apprezzato ovunque (non solo nei ricchi mercati emergenti/emersi, ma anche in realtà completamente nuove come l’Africa o il sub-continente indiano), che può efficacemente supportare anche le imprese di dimensioni minori, ovvero chi produce l’autentico Made in Italy. E a proposito di selezione dei mercati “giusti” da approcciare, è molto interessante una riflessione del Prof. Giovanni Berti (Research Fellow of Strategic and Entrepreneurial Management, SDA Bocconi) dedicata alla sfida dell’internazionalizzazione che le piccole e medie imprese italiane si trovano a fronteggiare.
Tali aziende spesso non effettuano adeguate analisi di mercato, né analisi delle risorse necessarie per competere, non fissano obiettivi a lungo termine e non definiscono i propri orientamenti. Capita così che si limitino a seguire opportunità in ordine sparso, oppure decidano di entrare in mercati in cui è un must per tutti essere presenti. In realtà, le evidenze empiriche attestano che le aziende più performanti nei mercati esteri non sono necessariamente quelle che esportano in un numero elevato di Paesi, ma quelle che concentrano gli investimenti e le risorse in un novero limitato di aree, replicando lì i fattori determinanti del vantaggio competitivo.
Prendiamo il caso dei mercati emergenti, sui quali le nostre aziende non sempre hanno informazioni significative e un metodo di analisi del loro effettivo potenziale. Al riguardo, il prof. Berti ha elaborato un modello che può adattarsi alle esigenze di molte PMI italiane, ponendosi lo scopo di supportarle nel processo di selezione dei Paesi ad hoc. Tale modello propone un processo di selezione in 3 fasi: screening, identificazione e selezione.
Nella fase di screening, l’obiettivo è escludere dall’analisi quei Paesi che, per fattori macroeconomici, non risultano particolarmente favorevoli all’investimento da parte di società estere. Questa valutazione si svolge utilizzando l’indice messo a punto dal World Economic Forum, il Global Competitive Index, che misura il grado di competitività di un Paese considerando le seguenti variabili: istruzione, sanità, stabilità governativa, infrastrutture, educazione, mercato delle materie prime, del lavoro e finanziario nonché le dimensioni dell’economia. Altro fattore macroeconomico da valutare è il rischio-Paese definito come rischio di guerra e di esproprio governativo. Questi dati sono forniti dalle maggiori agenzie assicurative.
Definita la lista di Paesi oggetto di interesse, se ne deve valutare poi la reale attrattività, anche in ottica futura. Per misurarla si può osservare la capacità del Paese di calamitare investimenti esteri. Un simile dato riguardante il livello di Foreing Direct Investments è pure disponibile al pubblico.
L’ attrattività potenziale del Paese è più complessa da calcolare, ma può essere stimata considerando le previsioni di crescita del PIL dei singoli Paesi. Potrebbe essere interessante aggiungervi anche un indicatore specifico per il settore in cui si vuole investire. Ad esempio, si può inserire il livello di consumo di beni di lusso se l’azienda opera nel settore dei preziosi. Tali informazioni possono essere rinvenute grazie alle ricerche di istituzioni come il World Economic Forum.
Infine, dopo aver mappato i Paesi per grado di attrattività presente e futura, si può procedere alla selezione dei target, valutando quelli più accessibili dal punto di vista dell’impresa. Ciò significa analizzare le barriere d’ingresso per accedere ad una specifica combinazione settore–Paese, non limitandosi all’esame di minacce e opportunità che scaturiscono dalle dinamiche competitive, ma analizzando anche le distanze a livello culturale, geografico e amministrativo.