Moda e Design. Il percorso storico di un proficuo rapporto
Al di là degli innumerevoli dibattiti intervenuti a codificare lo status della moda e del design quali arti applicate, queste due forme di “artigianalità” si sono incrociate più volte nel corso del Novecento, dando vita ad interessanti commistioni e ad oggetti rimasti simbolo di precise epoche.
Gabriella D’Amato, nel suo libro “Moda e Design” (edizioni Bruno Mondadori), mette in luce questo mutevole e proficuo rapporto, tracciandone un percorso che analizza i singoli decenni del XX secolo ed evidenzia il parallelismo fra oggetti di arredamento ed elementi vestimentari.
Ne risulta un affresco singolare, che mette il lettore a conoscenza di sfumature e progetti molto spesso dimenticati, pur rappresentando dei notevoli traguardi per l’evoluzione di due discipline tanto materiche quanto simboliche.
Il decennio che più di ogni altro vede l’affermazione del design come ramo indipendente della ben più alta architettura è costituito dagli anni ’20. Tale periodo coincide con la nascita della produzione di massa, artefice del concetto di serialità, che cambierà i tratti da una parte dell’arredamento, dall’altra dell’haute couture.
Già i primi anni del secolo scorso avevano visto, soprattutto nell’Europa continentale, la nascita di scuole dedicate allo studio di nuove soluzioni per gli interni, prima fra tutte la Wiener Werkstätte, fondata da Hoffmann e Moser. Tale decade coincide con il successo di un vero innovatore dell’alta moda, Paul Poiret, ricordato per aver liberato le donne dalle costrizioni dei corpetti. Allo stilista francese va però anche tributato il merito di aver costruito un autentico mondo firmato “Poiret”, con i mitici eventi dal sapore orientalista e l’infinita cura prestata all’arredamento e alla scenografia del suo atelier.
Con la fine del primo conflitto mondiale emerge nel Vecchio Continente la necessità di rigore e semplicità, esigenze egregiamente interpretate dalla modernità di Coco Chanel e dal razionalismo di Le Corbusier. Il rifiuto delle decorazioni come simbolo di avanguardia interessa il celebre tubino nero di Chanel come il nudo cemento armato e gli ascetici spazi monacali dei progetti di Le Corbusier, suggerendo una rinnovata idea di lusso che inaugura l’era moderna. Le petit robe noir di Madamoiselle viene paragonato alle automobili di Henry Ford, per lo status di modello universale, dalle forme semplici e dagli elementi essenziali. L’intuizione era la medesima: non puntare soltanto ad un pubblico esclusivo, ma tendere alla conquista di quello di massa.
In antitesi al design razionalista e al Costruttivismo degli anni ’20, il decennio successivo cambia le carte in tavola con l’ascesa del movimento Surrealista. La dimensione onirica e l’irrazionalità diventano gli strumenti prescelti dagli artisti per l’interpretazione del reale e conseguentemente per l’espressione creativa. Simboli incontrastati della corrente sono per l’arte e il design Salvador Dalì e per il mondo della moda Elsa Schiaparelli. Dalla Venere a cassetti ai cappelli a forma di scarpa rovesciata, l’obiettivo è spiazzare, scioccare, stupire un pubblico talvolta impreparato ad un’apparente confusione formale, sebbene profonda analisi introspettiva.
Sono anni in cui Parigi è il fulcro della creatività occidentale e la fucina dei più grandi talenti della storia della moda. Da Chanel a Patou, Lanvin e Vionnet, l’abito diventa un autentico linguaggio culturale e sociale, oggetto di mutazioni e sviluppi talvolta imprevedibili. A completare la schiera di couturier impegnati in questo progetto universale interviene Cristobal Balenciaga, considerato unanimemente l’architetto dell’alta moda. Lo stilista di origini spagnole costruisce l’abito sulla figura femminile in modo da assecondare le linee del corpo, senza intaccare le geometrie e i volumi dei tessuti. Balenciaga è pittore e scultore allo stesso tempo e le sue ispirazioni provengono da molteplici aree artistiche, sia nelle forme che nei colori. Parallelamente i designer Eames e Saarinen gettano le basi per la nascita del disegno industriale, sperimentando nuove tecniche e materiali di arredamento, prima fra tutti la plastica.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli assetti cambiano radicalmente e la classe media si afferma prepotentemente con un rinnovato potere economico e sociale. Il 1947 è l’anno della svolta, Christian Dior presenta la collezione Corolle che inaugurerà quella moda che Carmel Snow definirà il New Look. Se Chanel aveva semplificato e reso omaggio ad una donna con ambizioni stilistiche moderne, Dior reintroduce la vita stretta, le fodere e le sottogonne, accompagnate da metri e metri di stoffa e tulle. L’intento è chiaro: celebrare quei valori di opulenza e abbondanza, agognati dal nuovo ceto medio e rivendicati dall’alta borghesia. In soli dieci anni Christian Dior rivoluziona l’alta moda parigina, conquistando anche il mercato d’Oltreoceano. Per molti l’ascesa di Christian Dior significò la fine della moda intesa come teatro di innovazione e sperimentazione, per tanti il New Look rappresentò un passo indietro, un’ammissione di fallimento nel più ampio tentativo di regalare all’abbigliamento un sapore nuovo.
Nel design si assiste all’affermazione del cosiddetto Good Design, che, alla pari del New Look, manifesta una predilezione per le forme arrotondate e rassicuranti, per i dettagli lussuosi e in generale per un progressivo ritorno agli agi dell’abbondanza. In parallelo però la sperimentazione su nuovi materiali e nuove combinazioni di arredamento continua e la sedia Tulip, in plastica, progettata da Saarinen, ben rappresenta tali esigenze. L’Italia vive peraltro uno dei momenti di massimo sviluppo del design, con la proliferazione di quelle piccole e medie imprese che ancora oggi rappresentano un’autentica eccellenza del Made in Italy.
L’altro decennio che, unitamente agli anni ’20, segna un punto di rottura nel corso del XX secolo è rappresentato dagli anni ’60. Periodo controverso ed emblematico di una trasformazione sociale ed economica che decreterà i nuovi assetti del mondo occidentale. Nel 1961 viene eretto il muro di Berlino, nel ’64 inizia la guerra in Vietnam e nel 1968 divampano le contestazioni dei movimenti studenteschi. Parallelamente la produzione di massa procede a ritmi serratissimi e il consumo diventa un autentico valore sociale. Nascono le controculture giovanili e la moda di strada, imperversa la minigonna di Mary Quant e la Pop Art di Andy Warhol.
“La prima ed irreversibile crisi della modernità, la fine cioè di un sistema di certezze su cui la storia del XX secolo si era sviluppata; è l’inizio di un’epoca basata sul dubbio come unico strumento di conoscenza. La creatività pubblica della nuova moda, della musica, delle avanguardie radicali di quegli anni, fu complessivamente la risposta a quella caduta di stabilità che il razionalismo aveva fino ad allora offerto ad un Occidente disposto a crederci. Così la rivolta generazionale cercava di compiere attraverso la Pop Art il salto verso la diffusione del consumismo anche in Europa, e insieme cercava di difendere l’ultimo ridotto dell’individualismo contro l’appiattimento della cultura di massa.”
Courregès e Rabanne definiscono l’haute couture come la sintesi di design, architettura e moda, sperimentano materiali tradizionalmente deputati ad usi diversi (forse ad eccezione degli esperimenti di Elsa Schiaparelli con materiali come il cellophane). La plastica assume una propria identità estetica e diventa la materia dalla quale nascono capolavori come la sedia Panton e la poltrona Blow.
In definitiva, il decennio culminato con il Sessantotto si fa portavoce di una rivoluzione imperniata su valori tragicamente in antitesi ai tradizionali punti fermi della società occidentale, ma che negli anni successivi si rivelerà distante da quelle che erano state le aspettative iniziali. “Si partì per affermare la supremazia della politica su qualsiasi categoria e si finì invece con l’affermazione del privato. Si contestò il consumismo e, di fatto, se ne promosse lo sviluppo. Il terrorismo degli anni settanta fu la risposta a questo fallimento”.
Se le controculture degli anni ’60 erano state mosse da intenti costruttivi, il decennio successivo dà voce a movimenti di contestazione fine a se stessa, inaugurando un periodo di nichilismo e, secondo i sociologi, l’inizio della postmodernità. Il Punk è lo specchio di una gioventù che rifiuta qualsiasi tipo di istituzione e regola razionale, all’insegna della totale anarchia. È la moda del fai da te, la moda che mette da parte i materiali naturali preferendo quelli sintetici, la moda dei colori fluorescenti, dei giubbotti di pelle, delle spille da balia, delle borchie e degli anfibi. Insomma un movimento giovanile che fa dell’abbigliamento non più un’espressione della propria intimità, ma plasma quest’ultima per mezzo di segni esteriori.
La regina del movimento punk è senza ombra di dubbio Vivienne Westwood, visionaria stilista anglosassone, insofferente alla tradizione, anticonformista, eccessiva, l’unica che riesce a portare sulle passerelle una moda nata in strada e destinata a rimanervi.
In quegli anni anche il design subisce l’influenza di un’epoca animata da una generale crisi di identità e stabilità sociale e vede la nascita del Radical Design, che risulta essere un atteggiamento ed uno strumento di lotta e ricerca, teso a modificare la struttura dell’intero sistema. Si progettano oggetti impensabili e inutilizzabili, sedie zoppe, letti chiodati, tavoli inginocchiati, in palese antitesi con il rigore e la razionalità delle correnti precedenti. Sulla spinta di questo nuovo modo di concepire l’arredamento, in Italia si fa strada il cosiddetto “design del banale”, promosso e divulgato da Alessandro Mendini, designer a capo della rivista Casabella dal 1970 al 1977 e successivamente alla guida del magazine Modo. La ratio del movimento si fonda sull’impossibilità di produrre oggetti nuovi, rifugiandosi volutamente nel tentativo di riprodurre e reinventare il vecchio. Da una parte quindi si mira alla reinterpretazione di progetti dei grandi Maestri, dall’altra si punta a far diventare oggetti di uso comune dei pezzi da museo, concordemente a ciò che il Dadaismo, diversi decenni prima, aveva tentato di realizzare. Alla Biennale di Venezia del 1980 la corrente ottiene la sua definitiva ufficialità con le sezioni “Oggetto banale” e “La presenza del passato”, che decretano il principio dell’inattuabilità di un reale progetto moderno.
A partire dalla seconda metà degli anni ’70 si entra definitivamente nell’era del consumismo e dell’ostentazione, un periodo che sarà ricordato per l’abbondanza e la ricchezza sapientemente dimostrata dall’ascesa del prêt-à-porter italiano e di personalità come Gianni Versace e Giorgio Armani. Il design, nelle modalità di sviluppo, si avvicina sempre di più alla moda, facendo propri i concetti di relatività e collezione. Dopo la dichiarata distruzione dell’oggetto promulgata dal design radicale, negli anni ’80 si afferma un ulteriore sviluppo di quelle istanze creative, che prende il nome di Neomodern. L’oggetto di arredamento diventa un involucro di infinite possibilità, una tela attraverso cui dar sfogo alle idee più disparate, senza tener conto della coerenza insita nell’oggetto stesso. Le due principali aziende che fanno proprie tali convinzioni, provvedendo a divulgarle, sono Alchimia e Memphis, la prima delle quali rimarrà celebre per la collezione dal titolo “Il Mobile infinito”. Ideata da Alessandro Mendini, la linea si presenta come una sorta di puzzle domestico, costituito da quattordici elementi, che richiese il lavoro di circa trenta creativi, architetti e designer. Il Mobile infinito proponeva un concetto disomogeneo dell’arredo, concependo la casa come un accumulo, un groviglio di elementi che rispecchiavano momentanei impeti e passioni.
In netta contrapposizione a tali slanci, nel corso del penultimo decennio del secolo imperversa la moda giapponese, che si fa invece portavoce di istanze sobrie e minimaliste. Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo rappresentano le tre principali voci di questa nuova moda, in evidente contrasto con ciò che le passerelle europee proponevano in quello stesso periodo. Colori scuri, totale mancanza di decorazioni, profonde asimmetrie nei tagli erano solo alcune delle caratteristiche di questa nuova moda concettuale, che in un primo momento stentò a farsi strada fra i tailleur di Armani e le meduse di Versace, ma che fu apprezzata da alcuni reali “trendsetter”, come in Italia Carla Sozzani.
Nel 1989 cade il muro di Berlino e nel 2001 gli Stati Uniti vengono colpiti dall’attacco più cruento della loro breve storia, l’attentato alle Torri Gemelle. Nel mezzo un decennio articolato, in bilico fra gli sfarzi degli anni ’80 e l’incombere di una nuova crisi, prima di tutto culturale.
Nell’universo della moda e del design si alternano promettenti intuizioni e fallimenti stilistici, accomunati dall’evidente mancanza di un progetto unitario e di una consapevolezza storica, che non permette la nascita di un reale movimento culturale. È l’era di Internet e dell’informatizzazione, che se da una parte assicura velocità e progresso tecnologico, dall’altra sconvolge e ridefinisce i tratti della comunicazione e della società.
Armani, Prada e Gucci traducono in essenzialità il prêt-à-porter, Ralph Lauren guarda ad un’eleganza sportiva senza tempo, Calvin Klein scardina il sistema con discutibili campagne pubblicitarie e la stampa specializzata propone un nuovo concetto di bellezza femminile con il celebre Heroin chic. Il logo torna ad acquistare prestigio, diventando nuovamente uno status symbol.
La formula produttiva e commerciale che però più di ogni altra firma il decennio è quella di Ikea e H&M, entrambe svedesi, accomunate dalla medesima intuizione: offrire a prezzi di gran lunga inferiori a quelli di mercato un prodotto che segue i trend contingenti e che subisce un turnover velocissimo. Il fast fashion è in grado di realizzare collezioni settimanali a prezzi concorrenziali che seguono pedissequamente la moda delle passerelle, avvalendosi di una macchina industriale completamente verticalizzata. In brevissimo tempo tali realtà sono diventate dei veri e propri colossi, in grado negli ultimi tempi anche di dettare i trend e mettere in crisi quel ramo della piccola e media impresa che occupa la fascia intermedia del mercato.
Uno dei principali punti di forza di queste realtà è sicuramente la comunicazione, abilmente ideata per mettere al centro della strategia il consumatore finale, affinché si senta arbitro e artefice delle proprie scelte stilistiche. L’Ikea produce oggetti di arredamento facilmente assemblabili dal fruitore stesso, mettendogli a disposizione un numero di possibilità infinite. H&M stringe ogni anno delle collaborazioni con famosi stilisti internazionali, dando vita a capsule collection che soddisfano il remoto desiderio di indossare abiti griffati. Ikea affida a famosi designer e case di arredamento l’ideazione di nuove soluzioni d’interni. Insomma, una pozione infallibile, studiata ad hoc per il consumatore del XXI secolo.
In definitiva, ciò che chiaramente emerge dall’analisi di uno dei secoli più tormentati e avvincenti della storia occidentale è il profondo rapporto che lega la moda e il design nell’interpretare lo spirito dei tempi. Queste due discipline hanno dimostrato nel corso del tempo di essere in grado di riunire in un abito o in un oggetto di arredamento le conquiste e i fallimenti di una società.