Moda e poteri pubblici, facciamoci del bene!
Il Sindaco di Roma Ignazio Marino e quello di Parigi Anne Hidalgo hanno sottoscritto il 1° Ottobre scorso un’importante dichiarazione congiunta per rinnovare la partnership e conferire nuovo impulso alle relazioni tra le due storiche capitali gemellate da quasi sessant’anni. Fra gli intenti dell’accordo vi è l’intensificazione degli scambi in ambito culturale ed economico, in particolare il supporto alle innovazioni scientifiche, digitali e turistiche. Ma la cooperazione tra la Città Eterna e la Ville Lumière mira anche a sviluppare sinergie nel comparto della moda, incentivando progetti artistici che vedono coinvolti giovani stilisti e artigiani delle due metropoli europee entrambe fucine di sapere e bellezza.
Bene, non vediamo l’ora di constatare gli esiti di questo sodalizio rafforzato nel campo fashion. Intanto plaudiamo all’iniziativa, ragionando sul fatto che solo a partire da ciò che siamo stati, potremo avere un grande futuro: la moda ha radici forti, ma è un fenomeno che vive essenzialmente nel presente e si alimenta di contemporaneità, chiamata a rappresentare i desideri del pubblico in chiave prospettica e a conservare quella carica evolutiva che le permette di interpretare e forgiare la società migliorandola hic et nunc. Per questo è fondamentale che la moda italiana respiri l’aria del suo tempo, relazionandosi con la comunità in senso biunivoco, ossia anche alimentando la sensibilità estetica del Paese.
Vanno in questa direzione gli atti di mecenatismo civile di alcune griffe del lusso a favore di certi simboli del patrimonio artistico italiano: da Diego Della Valle con il Colosseo a Bulgari con Trinità dei Monti a Roma, da Ferragamo con gli Uffizi a Gucci con gli arazzi di Palazzo Vecchio a Firenze, da Brunello Cucinelli con l’Arco etrusco di Perugia a Fendi con la Fontana di Trevi nell’Urbe, per concludere con Miuccia Prada pronta ad offrire il suo generoso contributo ad Expo 2015 in quel di Milano con una mostra che si annuncia sensazionale.
Del resto, ha ricevuto molta attenzione l’appello che Bernard Arnault ha fatto di recente ad una “maggiore partecipazione alla vita artistica e culturale delle imprese”: l’ottica è quella di consolidare il legame tra le aziende del made in d’eccellenza ed i Paesi in cui esse operano realizzando il tanto osannato “bello e ben fatto”. Se la moda, l’arte, la cultura in generale si riducono a mero status symbol, in effetti, sono destinate all’epilogo indegno che spetta a chi tradisce la propria vocazione più profonda.
Ci si consenta, in coda, una piccola nota polemica nei confronti di quei poteri che, imponendo lacci e laccioli, finiscono per frenare quelle maison che scommettono sullo sviluppo e investono nei beni pubblici a vantaggio dell’intera collettività. Si pensi, ad esempio, agli altolà posti dal Tar a Prada, Versace, Armani (sebbene in via mediata, dato che il diretto destinatario della bocciatura è stato in realtà il Comune di Milano) per il restauro della storica Galleria Vittorio Emanuele. Pur rispettando qualsiasi decisione della magistratura, non si può tacere il disagio per una cultura del codicillo amministrativo ostativa di ogni innovazione che voglia unire industria, cultura, nuova sensibilità urbana: l’impressione è quella di un’autorità kafkiana che blocca la modernizzazione di un’economia e di un intero Paese già abbastanza in ritardo sulla tabella di marcia del progresso e della crescita.
Quando cominceremo a “fare squadra” veramente anziché continuare a rifilarci delle autoreti?