Moda ecosostenibile: resoconto di un corso alla Central Saint Martins
Ho da sempre a cuore il benessere dell’ambiente e degli animali, fin da quando ero piccola, e sto cercando di rendere il mio stile di vita il più sostenibile possibile.
A giugno ho ottenuto la laurea in Fashion Design presso l’Istituto Marangoni di Milano ed in futuro mi piacerebbe dedicarmi ad un’attività che mi consenta di unire creatività e rispetto dell’ambiente. L’industria della moda è quella che inquina maggiormente il pianeta, seconda solo a quella dei combustibili fossili, e la vista delle aule di modellistica dell’accademia con i pavimenti completamente ricoperti dalla carta velina dei cartamodelli e dagli avanzi dei tessuti, che si sarebbero potuti riutilizzare se non fossero stati calpestati ripetutamente, non ha fatto altro che confermarmelo.
Un gran numero di persone associano la moda eco-sostenibile a tessuti poveri e volumi informi, quando invece si tratta di un settore variegato in continuo sviluppo, con l’obiettivo di creare oggetti che siano al tempo stesso piacevoli alla vista, funzionali e dal basso impatto ambientale. Non esiste un solo modo di dedicarsi alla moda ecologica ed un marchio non può permettersi di incorporare tutti i criteri di sostenibilità esistenti nella sua etica. La soluzione migliore è scegliere alcuni aspetti e specializzarvisi, come la stilista inglese vegana Stella McCartney, che realizza prodotti in materiali biologici sostituitivi a quelli di origine animale.
Siccome durante il mio corso di studi questo argomento non è stato quasi toccato, ho deciso di approfondirlo seguendo un breve corso presso la prestigiosa Central Saint Martins di Londra.
Non si è trattato di lezioni frontali quanto di una vera e propria condivisione di opinioni, tra noi studentesse, diverse per età, provenienza ed esperienza di vita, la tutor ed eventuali interventi di esperti del settore. Queste discussioni sono servite come punto di partenza per la presentazione di un progetto personale per un marchio di moda eco-sostenibile, da esporre alle altre l’ultimo giorno. Chissà quanti di questi in futuro diventeranno realtà.
Un’intera giornata è stata dedicata ad una gita per negozi, ciascuno un differente esempio di eco-sostenibilità. La prima tappa è stata il negozio a Dalston di TRAID (106-108 Kingsland High Street; http://www.traid.org.uk), acronimo di Textile Recycling for Aid and International Development, ossia “recupero di tessuti per gli aiuti e lo sviluppo internazionale”, associazione che si occupa della rivendita di capi d’abbigliamento usati, raccolti in appositi contenitori posizionati in giro per numerose città del Regno Unito, attraverso una fitta rete di punti vendita (nella sola Londra ne è presente una quantità innumerevole, collocati in differenti zone della città), ciascuno specializzato in una determinata gamma di prodotti. Ad esempio, a Dalston si vendono abiti, scarpe ed accessori per donna, uomo e bambino di seconda mano (gran parte degli articoli proviene da marchi della fast fashion come Zara, H&M e Topshop) e vintage, oltre a libri, accessori per la casa, articoli da merceria e tessuti, sempre usati. È poi possibile acquistare capi della loro linea TRAIDremade, realizzata in collaborazione con artisti e stilisti, che si serve unicamente di tessuti di scarto e non sfrutta i lavoratori. Infatti TRAID si impegna anche nella beneficienza, promuovendo campagne di sensibilizzazione presso scuole, università, comunità ed autorità locali e sostenendo progetti in paesi sottosviluppati in Africa ed Asia per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori.
La fermata successiva è stata Nudie Jeans a Shoreditch (19-29 Redchurch Street; http://www.nudiejeans.com) repair store del brand svedese specializzato nella confezione di jeans venduti in tutto il mondo attraverso un’ampia rete di rivenditori. “Repair Store” indica i loro punti vendita dove, oltre ad acquistare i loro capi, è possibile portare i propri jeans da riparare.
Per finire, abbiamo girato per la Brick Lane, sempre a Shoreditch, nota per gli innumerevoli negozi di abbigliamento vintage. Il vintage non fa per tutti, tuttavia oggi si preferisce usare questa parola rispetto ad “usato”. Il boom che lo ha visto protagonista negli ultimi anni ha comportato un significativo aumento dei prezzi, ragione in più per cui non è visto come a portata di tutti. Inoltre è una tendenza che varia enormemente da un paese all’altro: in Inghilterra esistono moltissimi negozi diversificati, anche nei prezzi, mentre in Italia non esiste una diffusione così ampia.
Infine abbiamo visto il documentario di Andrew Morgan “The True Cost” (2015), che prende come spunto il disastro provocato dal crollo del Rana Plaza di Savor a Dacca, capitale del Bangladesh, avvenuto il 24 aprile 2013, per analizzare il cosiddetto “fashion system”. Sebbene non sia stata la prima fabbrica di abbigliamento collassata in un paese sottosviluppato, provocando critiche e proteste nel mondo occidentale contro l’industria della moda, estintesi però nel giro di breve tempo, il disastro del Rana Plaza, coi suoi oltre 1.100 morti ed oltre il doppio dei feriti, è stato uno dei più gravi mai verificatisi e due anni e mezzo dopo fa ancora parlare di sé, scatenando movimenti di protesta come Fashion Revolution (http://fashionrevolution.org). Le condizioni di estremo disagio e povertà in cui queste persone sono costrette a vivere e lavorare e l’enorme rete del lavoro minorile sono ben note da anni, ed in Occidente hanno portato più di una volta alla formulazione di accordi per migliorare il loro stato, che puntualmente alcuni dei colossi mondiali della moda si sono rifiutati di firmare o non hanno rispettato. Il disastro del Rana Plaza assume tratti agghiaccianti se si pensa al boom che la fast fashion sta vivendo in questi ultimi anni: l’abbigliamento costa sempre meno, spingendo la clientela a comprare sempre più capi, ed ogni settimana i negozi sono invasi da un’immensa quantità di nuovi arrivi, come se ogni anno ci fossero almeno cinquantadue stagioni. Non dovrebbe quindi stupire che i proprietari di marchi come Zara e H&M siano tra le persone più ricche del mondo. Le immagini della fiumana di gente che si riversa nei negozi il giorno del Black Friday (il giorno successivo al Ringraziamento, durante il quale i negozi di abbigliamento propongono sconti esorbitanti, aprendo la stagione dello shopping natalizio), dopo aver passato tutta la notte in attesa per essere i primi ad entrare, ed i video pubblicati su internet da giovani ragazze in cui fanno mostra al mondo dei loro ultimi acquisti, fanno raggelare il sangue se comparate alla miseria in cui si ritrovano a vivere le persone che confezionano questi prodotti. La qualità e la manodopera, così come l’applicazione di criteri in grado di ridurre al minimo l’impatto ambientale, hanno un costo: meno si paga un articolo, inferiori sono la sua qualità e la paga dell’operaio che l’ha realizzato. E poiché una bassa qualità comporta una minore durata nel tempo, questi indumenti si consumano o si rompono con estrema facilità, permettendo così che vengano rimpiazzati da altri identici. I dirigenti dei brand della fast fashion si difendono dicendo che in questo modo creano posti di lavoro, evitando alle persone di finire in strada a svolgere attività illegali e permettendo alle donne di essere tenute in considerazione siccome portano a casa uno stipendio. Sembra quindi quasi una contraddizione che questi stessi pubblicizzino la propria linea ecologica od una propria etica aziendale volta al rispetto dell’ambiente, ma dimostrarsi sensibili a queste tematiche, di cui in questi ultimi anni si è parlato tanto, potrebbe essere un tentativo di inserirsi in una tendenza che continua ad andare ed a venire.
Il documentario di Morgan dà spazio anche agli interventi di ben note personalità, da Stella McCartney (http://www.stellamccartney.com) a Livia Giuggioli Firth, ideatrice di Eco-Age (http://eco-age.com), compagnia che si occupa di aiutare diversi tipi di aziende, perlopiù appartenenti al mercato del lusso, a rendersi maggiormente sostenibili, fino ad Orsola de Castro, fondatrice di FromSomewhere (http://fromsomewhere.co.uk), marchio specializzato nella confezione di indumenti, perlopiù patchwork, a partire dagli scarti di tessuto prodotti dalle industrie. Si prosegue poi con Lucy Siegle, giornalista attiva nell’ambito delle questioni ambientali, autrice del saggio “To Die For: Is Fashion Wearing Out the World?” (2011), e Safia Minney, fondatrice di People Tree (http://www.peopletree.co.uk), brand tra i pionieri nell’ambito della sostenibilità, dedito alla coltivazione biologica di fibre naturali come il cotone ed alla realizzazione a mano di tessuti ed abiti di alta qualità. Tutti questi processi avvengono in paesi in via di sviluppo, nel totale rispetto delle condizioni dei lavoratori e delle loro tradizioni tessili, permettendone così la conservazione e dando una spinta all’economia locale. L’azienda ha la propria base nel Regno Unito, ma i suoi prodotti vengono venduti in tutto il mondo attraverso il sito internet.
D’altra parte, la produzione locale è una delle migliori opzioni per ridurre l’impatto ambientale e, pensando all’Italia, dobbiamo essere fieri della capacità delle industrie tessili di attirare stilisti rinomati in tutto il mondo, anche stranieri come Stella McCartney, per l’alta qualità e l’essere all’avanguardia nell’applicazione di criteri eco-sostenibili.
Alla fine, eravamo tutte concordi su un punto. Noi amiamo i vestiti. È il fashion system che mettiamo in discussione.