MODA, l’importanza di essere “MODESTA”
Tanto il fenomeno ha suscitato attenzione, che è arrivata anche una rivista a farsene interprete. Stiamo parlando della cosiddetta Modest Fashion, cioè la moda che cerca di rispettare i valori della cultura musulmana, proponendo abiti lunghi e morbidi, coordinati con veli o cuffie per coprire il capo. Così a Modena è nato il primo magazine europeo dedicato a questo tipo di abbigliamento, intitolato appunto “Modest Fashion”. L’editore Publish Form ha reso noto che “nel 2016 la moda Modest ha generato un giro d’affari da 300 miliardi di dollari e si stima che in un paio di anni il business arriverà a superare i 400 miliardi: “Questa crescita prevista – ha spiegato la direttrice Lidia Casari – è legata al fatto che il 62% delle popolazioni di fede islamica è composto da giovani sotto i 30 anni e già oggi la clientela musulmana rappresenta l’11% della spesa mondiale destinata all’abbigliamento”.
Obiettivo della nuova pubblicazione è quello di offrire a produttori di abbigliamento e calzature, uffici stile e designer, una serie di spunti per affacciarsi a un mercato in costante crescita, oltretutto affamato di made in Italy “bello e ben fatto”. Insomma, business is business e se pezzi da novanta dello stile internazionale come i nostri Dolce & Gabbana, Alberta Ferretti, Max Mara hanno firmato rigorose collezioni ad hoc per musulmane alla moda, una buona ragione deve esserci (a prescindere da qualsiasi discussione sul tema del velo islamico, quanto mai divisivo, caro ai più “muscolari” talk-show televisivi). L’opportunità comunque può essere valida anche per le piccole aziende, magari di nicchia, alla ricerca di canali alternativi (incluse le vendite on line) per resistere all’urto della globalizzazione.
L’altra faccia della mondializzazione, dunque, è quella che individua nuovi mercati dove gli altri vedono solo una difficile convivenza (i giganti low-cost Zara, Mango e H&M stanno cavalcando il trend della Modest Fashion già da alcuni anni). “Questa moda comporta una serie di risvolti etici e culturali – ha affermato Casari – ma non si può ignorare il fatto che anche la figura della donna nel mondo musulmano sta cambiando. Ci sono sempre più donne che lavorano fuori casa ad esempio e si moltiplicano quindi le occasioni per cui un guardaroba è pensato”.
Allora, mentre ovunque in Occidente si dibatte sulla questione della donna nel mondo musulmano, sospesa sulla mezzaluna oscillante fra integrazione ed emancipazione (per usare una metafora evocativa dell’immaginario mediorientale), a Dubai va in onda con straordinario successo il talent-show per aspiranti stilisti “Fashion Star Arabic”. La domanda che molti si pongono rimane tuttavia: quali potenzialità creative possano dispiegarsi secondo il codice estetico dell’Islam, vale a dire una cultura che consiglia alle donne di coprirsi con abiti lunghi? I 112 concorrenti, che arrivano da diversi Paesi del mondo arabo, presentano in verità modelli molto diversi tra loro, che rivelano altrettante provenienze culturali, valori, ideali, usi e costumi, gradi di libertà della donna che vanno dalla piena indipendenza alle regole del più restrittivo conservatorismo. Così, se Dolce & Gabbana o Alberta Ferretti fanno sfilare indossatrici elegantemente velate, con arabescati abaya e hijab, può capitare che sulle passerelle di “Fashion Star Arabic” appaiano modelle decisamente occidentalizzate nel loro look tutt’altro che halal, ovvero semplice e sobrio.
Circa le prospettive del mercato musulmano della moda, vale la pena citare il report “State of the Global Islamic Economy 2014-2015” di Thomson Reuters e Dinar Standard , già illustrato al “Turin Modest Fashion Roundtable”: in base alle stime, nel 2019 gli islamici spenderanno 484 miliardi di dollari in abbigliamento e calzature, con un incremento del 60% rispetto al 2014. Inoltre, stando ad una ricerca di Euromonitor International – “Doing Business in Halal Market” – è proprio la moda femminile ad assorbire a maggior parte dei ricavi generati dall’industria fashion negli Stati membri della Organisation of Islamic Cooperation (OIC).
Ma in fin dei conti, sono proprio così ferree le regole vigenti nei guardaroba dei sultanati? Alia Khan, figura di spicco nel Fashion System islamico, eletta Presidente dell’Islamic Fashion and Design Council (IFDC), un’associazione che promuove e supporta quanti vogliano intraprendere una carriera nel mondo della moda, ha spiegato: “Non ci sono vestiti islamici. È il modo di portare un abito che lo fa diventare quello che è, è la musulmana che lo rende islamico”. In Francia, dove la polemica su certi temi è ancora più accesa che da noi, il filosofo cattolico Camille Rhonat si è chiesto: perché non smettere di caricare di un simbolismo eccessivo il velo e tornare semplicemente a considerarlo l’oggetto che è? Un accessorio che una donna, musulmana o no, può indossare o meno, in tutta libertà: “Se si segue questa logica, si può sperare che un giorno l’insieme della società francese, musulmani e non musulmani, riesca a riconoscere che l’hijab non è mai stato altro che un accessorio religioso e niente di più. In altri termini, che non ha nessuna legittimità per affermarsi come un pilastro essenziale della pratica femminile dell’islam, e in tale senso può essere usato – o non usato – in tutta libertà”.
Insomma, valutare il livello di emancipazione delle donne dalla lunghezza delle gonne è un’assurdità, così come credere che la nudità del loro corpo sia lo strumento della loro liberazione. Se lo pensassimo, vorrebbe dire che anche noi occidentali saremmo prigioniere di un modello impossibile, chiuse in un quadro valoriale “malato”, a suo modo più fanatico di quello che si vorrebbe biasimare.
E’ bene forse ricordare, in conclusione, che Simone de Beauvoir, pasionaria del femminismo d’oltralpe e non solo, indossava abiti lunghi e coprenti, e raramente usciva di casa senza un foulard in testa. Era meno emancipata per questo?