Moda secondo natura, ragione e umanità
Le mostre dedicate alla moda da qualche tempo in qua stanno diventando alquanto pensose e seriose – talvolta fortemente autocritiche – senza mai prescindere dalla questione estetica. La sensibilità verso il valore della sostenibilità ha sicuramente un suo peso in questo ripiegamento problematico, ma non è solo questione di etica; è piuttosto un trend culturale e persino antropologico alla cui base vi è forse il disagio che caratterizza il nostro mondo in questo periodo, in particolare nei settori della creatività, molto più reattivi ed idiosincratici di altri.
Si prenda ad esempio il progetto “X Ray Fashion” di Francesco Carrozzini, un’installazione in realtà virtuale, della durata di 20 minuti, con un alto potenziale di sperimentazione e un forte messaggio politico, che ha debuttato alla Mostra del Cinema di Venezia 2018 nella sezione “Venice Virtual Reality” (in concorso come miglior storia immersiva e migliore esperienza per contenuto interattivo). Carrozzini, che è cresciuto a pane e moda (sua madre era la compianta Franca Sozzani), indaga qui il lato oscuro della moda, denunciando come essa sia la seconda fonte di inquinamento del pianeta dopo il petrolio, scaricando veleni nei corsi d’acqua, impiegando prodotti chimici tossici, riempiendo le discariche di abiti usati e scartati. Creata dal giovane gruppo danese MANND, l’installazione di Carrozzini è stata prodotta dal programma della Banca Mondiale contro il cambiamento climatico Connect4Climate e dalla Vulcan Productions del co-fondatore di Microsoft, Paul Allen, con il sostegno di Alcantara SpA, azienda italiana “Carbon Neutral” che ha scelto di impegnarsi nella lotta contro i cambiamenti climatici.
In sostanza “X-Ray Fashion” consente di seguire, in 49 metri quadrati, la vita di un capo di abbigliamento, dalla fabbricazione alla commercializzazione, dalle sfilate alla distribuzione, fino al consumatore per poi giungere al momento in cui l’indumento verrà dismesso. Si tratta in complesso di sette scene dal vivo a 360° per un film realizzato in CGI, ovvero con l’ausilio della Computer Generated Imagery, il quale permette allo spettatore di “entrare” nella rappresentazione esplorando lo spazio intorno in virtù di effetti multisensoriali che espongono al calore, al vento, agli odori e al movimento del terreno.
Il tutto ha inizio da una passerella fashion dove i presenti si confondono con le indossatrici, mentre la voce dello stesso Carrozzini narra la vicenda di un sopravvissuto al disastro di Rana Plaza in Bangladesh, raccontando tra l’altro che i trend della moda si possono spesso intuire dal colore dei fiumi in alcune zone asiatiche. Davvero impressionante.
“Ho lavorato nell’industria della moda per molti anni, ignorando le conseguenze del nostro business sull’ambiente e sulle persone in tutto il mondo. Ho accettato di dirigere il film per imparare di più sull’impatto ambientale della moda che non avevo percepito per tanti anni” ha spiegato Carrozzini, che in passato si era già distinto come autore di “Franca Chaos and Creation”, dedicato alla straordinaria figura di Franca Sozzani. Per Giulia Braga della Banca Mondiale, consulente del programma di partnership globale Connect4Climate, “la realtà virtuale genera empatia ed è uno strumento potentissimo per trasmettere messaggi che possano ispirare cambiamenti positivi”.
Spostandoci a Londra e interpretando lo stesso mood, troviamo interessante la rassegna al Victoria and Albert Museum (fino al 27 gennaio 2019) “Fashioned from Nature”, che indaga il rapporto tra moda e natura attraverso una vasta gamma di creazioni dal 1600 ad oggi tra pattern e stampe in stile floreale e animalier. Fra i 300 modelli (abiti, accessori e tessuti) selezionati dai curatori spiccano in particolare i capi creati da Stella McCartney e Calvin Klein, due brand molto sensibili al tema della sostenibilità ambientale, sperimentatori di nuovi materiali talvolta fino al paradosso: si pensi agli abiti realizzati con animali impagliati!
La mostra intende far riflettere non solo su come la natura abbia ispirato la moda nel corso dei secoli, ma anche su come il business del fashion abbia contribuito a danneggiare l’ambiente. Malgrado le ferite inflitte all’ecosistema, è l’ottimismo a prevalere comunque, dal momento che oggi sia i consumatori che le aziende con i loro stilisti sempre più “etici” sono consapevoli delle istanze in gioco e quindi, grazie anche alla tecnologia, abbracciano in modo sempre più convinto la filosofia green.
Tra i pezzi clou esposti a “Fashioned from Nature” vi è il sorprendente abito indossato da Emma Watson al Met Gala del 2016, disegnato da Calvin Klein e realizzato da Eco Age con plastica riciclata proveniente da bottiglie usate, concepito in tre moduli per essere riutilizzato con diversi abbinamenti.
Fra gli oggetti più singolari presenti in mostra a Londra si distinguono poi una clutch in fibra di ananas, un abito di Vegea fatto con gli scarti dell’uva provenienti da aziende vinicole, un completo di Ferragamo in fibra d’arancia, modelli della collezione H&M Conscious prodotti con i rifiuti plastici raccolti sulle spiagge. Curiosi sono sicuramente gli orecchini datati 1875 realizzati con le teste di due uccellini hawaiani o l’abito in mussola della seconda metà dell’Ottocento decorato con le elitre cangianti dei coleotteri. E che dire del panciotto settecentesco decorato con macachi o degli accessori di Gucci che, sotto la direzione creativa di Alessandro Michele, si sono animati di cervi volanti, api, serpenti e tigri?
Benché sollevi questioni complesse in maniera che a taluno potrebbe sembrare generico e superficiale, questa rassegna ha il pregio di stimolare il dibattito, anche attingendo al repertorio culturale dei movimenti protestatari nell’ambito dell’ecologismo, dando spazio a manifesti, vestiti con slogan cuciti o stampati, opere d’arte a tema che arricchiscono l’allestimento. E – non solo perché londinese – essa rende un doveroso tributo a Vivienne Westwood, che da tempi non sospetti ha fatto dell’ideologia ambientalista un suo cavallo di battaglia: in mostra la stilista pioniera del punk è presente con un abito indossato durante una manifestazione contro il cambiamento climatico e in difesa del pianeta.
A New York invece, fino al 17 novembre, è possibile lasciarsi affascinare al Museo del Fashion Institute of Technology da un evento espositivo molto particolare – “Fashion unraveled” – che anziché mostrare la bellezza dei vestiti, sottolinea le loro imperfezioni e l’usura a cui vanno incontro, la loro incompiutezza e destrutturazione, mettendo in discussione il concetto di moda usa-e-getta, ovvero il carattere effimero di prodotti di consumo che instaurano comunque un legame fisico e psichico con le persone che li indossano e ne fanno memoria. Capi di Jean Dessès, Chanel, Oscar de la Renta o Yohji Yamamoto, sono i protagonisti di questa mostra che forse ci invoglia a puntare maggiormente su abiti di qualità che durano nel tempo e acquistano senso etico oltre che estetico in virtù del valore aggiunto che uso e consumo, modifiche, aggiustamenti, logorio conferiscono ad essi. In generale tutti gli articoli esposti invitano a riflettere sui preconcetti relativi a bellezza e valore nella moda e sottolineano l’importanza delle storie che possono essere raccontate dai vestiti medesimi.
“Fashion Unraveled” è suddivisa in cinque sezioni, con 60 oggetti tra abiti e accessori che spaziano dal XVIII secolo ad oggi: “Behind the Seams” offre curiosità sulla realizzazione di un capo o sul modo in cui è stato indossato; “Mended and Altered” esplora le diverse maniere in cui un articolo ha subito modifiche nell’arco della sua vita (per adattarsi a nuovi trend o per un utilizzo particolare, ad esempio per il cinema, oppure per motivi sentimentali); “Repurposed” propone modelli che sono stati rifatti completamente per ottenere qualcosa di nuovo e di maggiore valore (riciclo a fine di upcyling!); “Unfinished” si concentra sui capi non finiti, siano essi tali deliberatamente o involontariamente; da ultimo “Distressed and Deconstructed” fa luce sui diversi approcci con cui gli stilisti hanno sposato nel loro lavoro un’estetica dell’imperfezione. Curiosa è anche la tuta che la stilista Betsey Johnson ha realizzato con strisce di tessuto patchwork tagliate da alcune camicie in stile rugby appartenute a John Cale, ex-consorte della designer e membro della rock-band d’avanguardia The Velvet Underground.
Stella Mac Cartney ha dichiarato:“Credo nel riciclo, nel mantenere le cose più belle e produrre collezioni fatte bene e che resistano nel tempo. Siamo liberi di comprare quello che ci dà piacere, non voglio spingere la gente a spendere, voglio soltanto migliorare la loro vita”.