Modanti e dintorni
“La moda muore giovane, per questo è commovente”. Fu il celebre artista francese Jean Cocteau, collaboratore di Elsa Schiaparelli e illustratore di memorabili copertine di “Harper’s Bazaar”, a pronunciare questa frase deliziosa. Il termine moda, che deriva dal latino modus (maniera, abitudine, modo comune di vestire), venne usato per la prima volta in Italia solo nel 1645, contenuto nel libro “La carrozza da nolo”, “ovvero del vestire alla moda” dell’abate benedettino Agostino Lampugnani di San Simpliciano a Milano (pubblicato a Bologna con lo pseudonimo Gio Sonta Pagnalmino, a causa di dissapori col suo superiore).
In tono critico l’autore definiva “modanti” quanti si lasciavano sedurre da una pratica così effimera e passeggera.
Ma proprio nel “˜600 si diffuse, a partire dalla Francia, l’espressione à la mode, che da una ristretta élite si estese col tempo alle masse come processo di continuo mutamento dei fattori esteriori della vita, giungendo fino ai nostri giorni e facendo dire al filosofo tedesco Georg Simmel che essa è “una delle tante forme di vita con cui la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale si congiungono in modo unitario”.
Forse, la spinta definitiva alla consacrazione della moda come fenomeno contemporaneo la diede nell’800, a Londra, il “mitico” Lord Brummel, il più famoso dandy della storia, ricercato nell’abbigliamento, ma contestatore delle convenzioni borghesi, dei sentimenti patriottici nonché della tradizione conservatrice.
Oggi riconosciamo che il vestirsi è un elemento evolutivo connaturato all’uomo, che tra i suoi bisogni nutre quelli di sicurezza e accettazione, quindi sente di dover comportarsi in modo conforme all’ambiente frequentato, anche se questo comporta una limitazione della propria libertà individuale e della propria creatività. Allo stesso tempo, adeguarsi al costume corrente diviene, paradossalmente, un modo per distinguersi, competere, vincere.
Per quanti sforzi intellettuali gli esperti compiano per “presagire” i nuovi trend, ci sembra di poter concludere che, per capirla davvero, la moda deve essere valutata a posteriori, quando è già passata. Roland Barthes sosteneva che essa ha due durate: una storica, relativa ad un periodo di tot anni, ed una memorizzabile, in quanto riferita alla passata stagione. La moda, tuttavia, non va confusa col costume: se l’una è soggetta a frequenti mutamenti, l’altro si sostanzia di valori culturali duraturi, legati ad una determinata epoca storica e ad un determinato popolo.
La moda è uno dei segni più palpabili del fluire del tempo ed è sorprendente l’insieme di analogie che si riscontrano con altri campi, fra cui perfino la politica (ad esempio, dalla Russia dell’era Gorbachev, dietro l’impulso di perestroika e glasnost, ai nostri stilisti venne ispirata la moda dei corpetti ricamati a mano, delle vesti lunghe, degli scialli rossi a fiori).
William Shakespeare scriveva: “Se pur serbassimo il silenzio e non pronunciassimo una parola, le nostre vesti ed i nostri corpi ti diranno la vita che abbiamo condotto”. Ci sono, in effetti, alcuni personaggi famosi che, indossando certi capi d’abbigliamento ne hanno decretato il successo, dimostrando che “l’abito fa il monaco”. Si pensi, ad esempio, quanta fama il foulard debba alla bella e colta danzatrice Isadora Duncan che, in un’epoca (tra fine “˜800 e inizio “˜900) in cui le donne usavano questo indumento solo nello sport, lo adottò pure nella vita di società, imponendone la moda (la sorte, però, fu ironicamente crudele con lei, dal momento che proprio un foulard annodato al collo fu la causa della sua morte: impigliandosi nella ruota della sua auto, la strangolò).
Il twin-set, invece, resta legato nell’immaginario al nome e al volto della raffinata attrice Deborah Kerr, che negli anni ’40 cominciò ad indossarlo associandolo ad un filo di perle, facendone un emblema della signora “perbene” (a lanciarlo come sottogiacca era stata la ditta Pringle of Scotland). In Italia fu curiosamente battezzato “Giulietta e Romeo”.
Il trench, per citare un altro esempio, assurse a “divisa ufficiale” del mito hollywoodiano Humphrey Bogart, che addirittura suggeriva di persona all’azienda Aquascutum le modifiche da apportare ai vari modelli. Il tessuto “Principe di Galles”, d’altro canto, è debitore del nome a Edoardo VIII d’Inghilterra, che per primo condusse in auge i completi a righe e quadretti intersecati, subito imitato da tutti i mondani (lui stesso, a fianco della “scandalosa” moglie Wallis Simpson, divenne il paradigma del belvestire nei più esclusivi party del pianeta).
L’abito da sposa bianco con bouquet floreale è legato, invece, all’eleganza della regina Margherita di Savoia (moglie di Umberto I), che il giorno del suo matrimonio giunse all’altare con un vestito da sogno, candido e riccamente ornato di fiori, corredato da un ampio mantello e uno strascico di tre metri. L’eco dell’evento fu tale che a lungo i giornali di moda parigini le dedicarono spazio e i magazzini del Louvre arrivarono a intitolarle un’intera linea, in particolare una “cintura margherita” che spopolò fra le clienti. La sovrana medesima contribuì a fondare nel 1878 a Milano una rivista di moda che descriveva le tendenze del momento e i ricevimenti più “glamour” (oggi li definiremmo così).
E terminiamo con l’ironia di un’altra donna che forse anche la regina Margherita avrebbe apprezzato, Simone de Beauvoir, la quale osservò: “Non c’è niente di più irritante per una donna che vedere apprezzare in un’altra vestiti e atteggiamenti che il marito critica in lei”.