Novecento di Moda
Trovano spazio anche la moda, i gioielli e il design nella grande mostra che, fino al 16 Giugno, Forlì dedica alla cultura figurativa del secolo scorso. Ideata da Antonio Paolucci e curata da Fernando Mazzocca, la rassegna è ospitata nelle sale dei Musei di San Domenico e porta il titolo tanto semplice quanto efficace di “Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre”. In effetti, si propone di far luce sulla temperie di quell’epoca densa e ardua che va dal primo dopoguerra al tragico epilogo del secondo conflitto mondiale, indagando le opere dei maggiori esponenti dell’intellighentia italiana, i quali si sentirono investiti della missione di creare nuove espressioni artistiche per i tempi a venire. Il più lucido esponente di tale clima fu lo scrittore Massimo Bontempelli, che nel 1926 fondò la rivista “900” convinto che “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare. L’Ottocento non poté finire che nel 1914”. In tale contesto ideale le vicende della moda vennero ad intrecciarsi strettamente, anzi ad identificarsi pressoché completamente con quelle della cultura e della politica, originando, tra il sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva della grande couture italiana.
La vasta esposizione forlivese intende dunque rievocare il milieu che vide non solo architetti, pittori e scultori, ma anche stilisti, designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, cimentarsi in un progetto comune che rispondeva, attraverso una profonda revisione del ruolo dell’artista, alle istanze del cosiddetto “ritorno all’ordine”, sulla scia della crisi delle avanguardie storiche, in particolare il Cubismo e il Futurismo, considerate l’ultima manifestazione di un processo di dissolvimento dell’ideale classico iniziato con il Romanticismo. “Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme” affermava Carlo Carrà, mentre De Chirico concludeva il suo scritto programmatico sul ritorno della figura umana esclamando: “Pictor classicus sum”. Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità sostenuto da questi intellettuali ebbe il sostegno del regime (anche grazie all’abilità organizzativa di Margherita Sarfatti), che in quanto tale era alla ricerca della definizione di un’arte di Stato, ansioso di sfruttare a fini propagandistici e di consenso il linguaggio classicista degli artisti e in molti casi la loro stessa complicità.
Per quanto concerne la moda in senso stretto, gli anni ’20 segnarono una decisa inversione di rotta in materia abbigliamento femminile, risentendo dell’influenza forte del razionalismo e della passione per le geometrie. Gli abiti, quindi, si fecero più sobri, con linee diritte, vita bassa, gonne più corte; invece i vestiti da sera, senza maniche e con spalline sottili, optarono per tessuti leggerissimi (seta, tulle, organza, chiffon), sovente arricchiti di frange e perline. Si accorciarono anche i capelli, mentre i cappelli si trasformarono in piccole cloche portate fino alle sopracciglia. In seguito, abbandonati i fasti degli “anni ruggenti” post grande depressione del ’29, la moda espresse il suo tempo scegliendo di privilegiare forme più femminili e meno androgine. Prese le distanze dalle linee marcate del decennio precedente, negli anni ’30 gli abiti si fecero morbidi e fascianti, le gonne si allungarono sotto il ginocchio per il giorno e fino alla caviglia di sera. Rimase però di tendenza la grande novità introdotta negli anni passati: pienamente sdoganato, il pantalone diventò un capo elegante, tanto da essere indossato con disinvoltura da dive del calibro di Marlene Dietrich. La vera rivoluzione degli anni ’30, tuttavia, furono i tessuti: la crisi infatti costrinse a risparmiare sui filati ed ecco che, per la prima volta nella storia, l’industria dell’abbigliamento propose le fibre sintetiche: il nylon (e non la seta) divenne il materiale più utilizzato per la fabbricazione di calze e collant, vera e propria invenzione dell’epoca. Il trucco anni ’30 era tutto focalizzato sulle labbra: un must fu il rossetto rosso, a corredo di un incarnato molto chiaro. Quanto all’acconciatura, si imponeva la riga laterale, con i capelli agghindati in larghe onde che incorniciavano il viso in una chioma quasi scultorea.
La mostra di Forlì rievoca le principali occasioni in cui gli uomini di cultura si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti del Fascismo, come esemplificano soprattutto l’architettura pubblica, la pittura murale e la scultura monumentale. Sono documentate la I e la II Mostra del Novecento Italiano (rispettivamente del 1926 e ’29); la grande Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma nel 1932-1933 in occasione del decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano (che vide la consacrazione della pittura murale intesa come arte nazional-popolare); la rassegna dell’E42 di Roma. La pittura murale e la scultura monumentale, che furono con l’architettura l’espressione più significativa e meglio riuscita di quel periodo, vengono indagate all’interno degli edifici pubblici, come i Palazzi di Giustizia, le Poste, le Università. La presenza a questo evento di tanti dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, intende offrire una visione a tutto tondo del rapporto tra le arti ed il costume, confrontando artisti sì diversi, ma tutti accomunati dal fine di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia assolutamente contemporanea. Il compito dell’artista, come sancito da Bontempelli, divenne quello di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”.
Attraverso i maggiori protagonisti (pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, e scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli) appare in tutto il suo nitore la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento. Questo superamento della pittura da cavalletto per recuperare il rapporto tra la pittura e l’architettura significò il grande ritorno al Quattrocento italiano visto come fonte di ispirazione per gli intelletti contemporanei, così che Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca, per le loro rappresentazioni realistiche, sospese tra meraviglia e precisione, furono sentiti particolarmente vicini.
Due quadri straordinari introducono alla mostra forlivese: la nitida, ariosa, perfettamente prospettica veduta urbana della “Città ideale” della Galleria Nazionale di Urbino, e “Silvana Cenni”, capolavoro del 1922 di Felice Casorati, che rievoca Piero della Francesca e insieme i ferraresi del ’400 in un’atmosfera metafisica. Ma la vera icona dei quasi trent’anni di storia italiana abbracciati dall’esposizione è senza dubbio la “Maternità” di Gino Severini (1916) risalente al suo periodo post-avanguardie futuristico-cubiste. L’opera, in effetti, è quasi un unicum, collocando l’autore vicino all’esperienza del Picasso neoclassico: il tema è tradizionale, la tecnica figurativa è chiaramente ispirata alla pittura toscana del Quattrocento, la composizione non ha nulla del dinamismo che, variamente declinato, aveva caratterizzato fino ad allora la pittura di Severini, per cui questo dipinto è leggibile come un consapevole tentativo di spingersi in avanti (testimoniato sotto il profilo teorico nel saggio “Du Cubisme au classicisme”).
Il Novecento, in definitiva, passò dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Lo testimoniano gli splendidi mobili e gli altri oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Gio Ponti e i gioielli realizzati da Alfredo Ravasco. Tutti da ammirare, anche per capire meglio l’Italia e gli Italiani di allora… nonché di oggi.