Odio la moda…..Ho cambiato idea!
Ricordate la Francesca Neri di un famoso spot di gioielli di qualche tempo fa, quando affermava una cosa e, subito dopo, la negava, sostenendo che aveva cambiato idea?
Ebbene, qui a brillare per incoerenza e contraddizione sono io. Ma forse ho già cambiato idea anche su ciò.
Lo ammetto: occupandomi di moda e lusso per lavoro, sono talvolta tentata di mollare tutto e dedicarmi ad altro (e quanto “altro”, ahimè, accade nel mondo!), convenendo per un attimo con quanti, abbagliati da tanto glamour, ritengono che in fondo si tratti solo di espressioni effimere, superflue, voluttuarie, fatue, elitarie, insomma evocative della biblica vanitas vanitatum. Per fortuna, la malìa tentatrice di questa “pulce nell’orecchio” dura poco e presto risorge l’entusiasmo per il fashion system, a cui rinnovo la promessa di fedeltà nella buona e nella cattiva sorte.
A riaccendere la scintilla non sono, in effetti, solo considerazioni razionali (in primis quella, tanto prosaica quanto ineludibile, delle migliaia di persone che operano e vivono di tale business), ma pure questioni di “intelligenza emotiva” (siamo sicuri che non ci sia più logica nel cuore che nel cervello, a ben vedere?), ovvero la consapevolezza che nella nostra moda – o meglio, negli oggetti tangibili in cui la nostra moda si incarna – è rinchiuso il nostro passato e, quindi, la premessa/promessa del nostro futuro. Viene in mente la celebre tazza di tè in cui Proust inzuppava la sua madeleine, da cui poi è scaturita l’eroica Recerche du temps perdu dove, per usare le parole dell’autore stesso, “come in quel gioco in cui i giapponesi si divertono ad immergere in una catinella di porcellana riempita d’acqua dei pezzettini di carta fino a quel momento indistinti, i quali, appena si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano dei fiori, delle case, dei personaggi consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann e le ninfee della Vivonne, e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che prende forma e solidità, è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”.
Dal mio infuso, si parva licet, affiora invece un mosaico di abiti, scarpe, gioielli, accessori, pezzi di design, volti di stilisti e modelle, che ragione e sentimento insieme percepiscono come un tutto armonico, secondo un codice interiore scevro di limiti spazio-temporali.
Da questa tazza, in definitiva, emerge il nostro passato migliore che, lungi dall’essere o anche solo dall’apparire frivolo, superficiale e caduco, si oggettiva nella “roccia” della qualità, della creatività, dell’intraprendenza, del coraggio, dell’etica del lavoro, dell’eleganza dei modi (oltre che delle mode), valori che sempre si sono nutriti di cultura ed apprendimento continuo, tensione incessante all’eccellenza ed alla bellezza.
Già, la bellezza. E’ questa, in fondo, il motore di tutto, che infonde passione e fa volare alta la volontà, nonché i sogni, le ambizioni, i traguardi. E’ il bisogno insopprimibile di bellezza, che il buon Maslow avrebbe dovuto inserire nella sua piramide dei bisogni primari, ad innescare e conclamare il concept della moda con tutti i suoi epifenomeni.
Chiediamoci: cos’è la bellezza, se non l’esigenza inalienabile di qualcosa che dia senso al nostro transitorio vagare nel mondo? In ottica cristiana, ci si potrebbe anche domandare, senza tema di empietà: che cos’è questa bellezza se non l’espressione visibile del bene più alto, cioè di Dio? E che cos’è il bene se non la condizione metafisica della bellezza, come affermava il Papa Magno Giovanni Paolo II?
La moda, dunque, in questa prospettiva, è anche un luogo dell’anima, in cui si può trovare diletto, stimoli vivificanti, aspirazione alla sublimità perfetta che riflette sommi ideali e che trascende il “velo di Maja”.
Certo, molto dipende anche da noi “addetti ai lavori”: alla luce di una nuova consapevolezza, partecipando in modo più responsabile, proattivo, alle “liturgie” della moda, senza subirne passivamente i “vizi” o tollerarne i “peccati” per quieto vivere e connivenza (turandoci il naso tra fetori di cinismo e degenerazioini di ogni sorta), dovremmo tutti cessare di considerarla una mera “macchina da soldi” o, all’opposto, un monumento da onorare solo a scadenze comandate, una conchiglia incantevole eppure vuota, di cui non si sa più nemmeno perchè piace.
Vivendola e raccontandola con la coscienza delle sue radici e delle sue prospettive, del substrato morale cui cui poggia (o dovrebbe poggiare) e delle sue “promesse di felicità”, la capiremo meglio e la rispetteremo di più, la ameremo doppiamente e, soprattutto, la aiuteremo a progredire davvero (stima e autostima sono contagiose!).
Come Proust, avremo infine il nostro Temps retrouvé, intuendo fino in fondo perchè ci è assolutamente necessario quel che appare vano e vacuo.
Parola mia… e stavolta non cambierò idea.