Per un pugno di bottoni
“C’era una fila di bottoncini di raso che non abbottonavano nulla e che non potevano essere sbottonati”. Questo intrigante cenno all’abito della proustiana Odette de Crecy ci introduce ad un nuovo libro assai curioso, e pertanto irresistibile, di Margherita Di Fazio, saggista da sempre interessata ai rapporti fra testo e paratesto. Il titolo è niente meno che “Bottoni, cappelli e… L’accessorio dell’abbigliamento fra moda e letteratura” (editore: Artemide).
La studiosa marchigiana, docente all’Università Roma Tre, parte dall’osservazione che anche un elemento secondario come l’accessorio, al pari di ogni oggetto del mondo reale, può entrare nella fiction, ovvero nell’universo “finzionale” della letteratura. In quali forme? In quale rapporto con la trama del racconto?
La domanda allora si ramifica in un delta narrativo: quali funzioni svolgono all’interno dei rispettivi testi i sopraccitati bottoncini sull’abito di Odette, il cappello fiorito di romantici myosotis e gentili piante acquatiche della contessa lituana Prascovie Labinska descritta da Théophile Gautier in “Avatar”, il guanto dell’armatura e quello della sfida, gli occhiali del manzoniano don Abbondio, l’ombrello della super-tata Mary Poppins uscita dalla penna di Pamela Lyndon Travers, il ventaglio di Lady Windermere creatura di Oscar Wilde, il giglio di Francia tatuato sulla seducente spalla della perfida Milady di Dumas, ecc. ecc.?
La risposta è che essi non vivono solo “mimeticamente” nella rappresentazione letteraria, come parte dell’abbigliamento dei personaggi, ma spesso concorrono in modo sostanziale al processo costruttivo in corso, diventando uno dei tasselli fondamentali nell’animato mosaico della narrazione.
Il raffinato volume di Margherita Di Fazio, indagando i testi letterari europei (soprattutto italiani) dell’Ottocento e del Novecento, attraverso sette percorsi paradigmatici, esamina quindi la moda non esclusivamente nella sua dimensione estetica, ma anche nel suo ambito socio-psicologico, nella comunicazione doppia – figurativa e scritta – che instaura con il personaggio portatore dell’accessorio e con il resto del mondo.
Corredato da molte preziose immagini, “Bottoni, cappelli e…” racconta le varie preferenze degli scrittori per gli accessori, a cominciare da quella per i bottoni. Da Flaubert a Balzac, da Puškin a Pirandello, la predilezione per i dischetti da infilare nelle asole è palese. Si pensi, solo per citare un esempio italiano, alla novella “Il bottone della palandrana” di Pirandello, in cui la perdita di un unico bottone incarna il collasso di un intero sistema di vita (“Ma, ormai, a che gli serviva più? Poteva bene andar per via con la palandrana sbottonata, e anche svoltata, con le maniche alla rovescia…”).
D’altro canto, se Flaubert un po’ feticisticamente dichiara che “nulla è più conturbante di una mano inguantata”, Mallarmé si focalizza sul ventaglio femminile (al quale ha dedicato oltre venti poesie), mentre al giorno d’oggi l’attenzione degli autori finisce sempre più spesso per rivolgersi ad accessori sui generis come il tatuaggio ed il piercing, due elementi che “entrano” materialmente nel corpo, alterandone la fisicità: volendo trasmettere un’idea di identità e di appartenenza, oltre che connotare un look, essi rivelano un’esigenza individuale di esibizione tutt’altro che naif, bensì calcolata a fini di simulazione e dissimulazione al medesimo tempo.
Come insegnava nonno Lëša al giovane Kolima, tatuatore in erba – alias lo scrittore Nicolai Lilin (russo naturalizzato italiano), autore di noti romanzi quali “Educazione siberiana” e “Storie sulla pelle” – “Eccoti la prima lezione, piede scalzo: le parole sono il cane che hai a casa, i disegni dei tatuaggi sono il lupo che incontri nel bosco. Non siamo noi a dominare i simboli, sono loro a muovere la nostra vita”.