Più dazi per tutti?

Secondo i centri studi di varie organizzazioni, i settori Made in Italy maggiormente colpiti da eventuali dazi imposti all’Unione Europea dall’America neo-protezionista di Donald Trump (forse non nell’immediato ma nel 2026) saranno quelli della moda e del cibo, comparti trainanti della manifattura italiana. Con aliquote tariffarie del 10% le perdite sarebbero di almeno 3 miliardi e di oltre 10 se i balzelli doganali fossero fissati al 20%. Forti contraccolpi subirebbero anche altre “locomotive” nazionali come le attrezzature per il trasporto, chimica/farmaceutica, macchinari, ferro e acciaio. Superfluo ricordare che per l’Italia gli Stati Uniti sono il primo mercato di sbocco dell’export.
Il commercio internazionale riveste un ruolo fondamentale per l’economia italiana e una guerra doganale sarebbe molto più penalizzante per il nostro Paese rispetto ad altri in Europa, proprio in virtù dei suoi legami speciali con gli USA, che si traducono in un saldo della bilancia commerciale saldamente positivo. Questa virtù è un elemento chiave della competitività italiana, per cui un’escalation protezionistica non farebbe che minare pesantemente questi equilibri.
Durante la prima presidenza Trump (iniziata nel 2018) vennero introdotti dazi addizionali su alcune eccellenze italiane come vino, olio, pasta e formaggi, oltre a materiali strategici come acciaio e alluminio, a cui fece seguito una dura risposta europea con un aumento delle tariffe su beni americani (prodotti agricoli, motociclette e bourbon), ma ciò non bastò a compensare il terreno perso. E oggi, il commercio estero riveste un ruolo ancora più decisivo per il sistema economico italiano. Attualmente, le esportazioni rappresentano infatti circa il 40% del PIL e, secondo il “Doing export report 2024” di Sace, dovrebbero crescere del 4,5% nel 2025 e del 4,2% in media nel biennio successivo. In termini di valore, si stima che raggiungeranno i 679 miliardi di euro nel 2025.
A voler essere ottimisti, però, non sarebbe da escludere uno scenario “win win” in cui prevarrebbe la geopolitica e l’Italia potrebbe essere lasciata fuori da ogni ipotesi di inasprimento dei dazi grazie a una strategia tariffaria differenziale che Trump applicherebbe all’interno dell’Europa, risparmiando i “Paesi amici” (friendshoring).
Comunque, la minaccia dell’impennata tariffaria esiste e, come detto, la nostra moda sarebbe tra gli ambiti più colpiti. Dopo aver chiuso il 2024 con un crollo del fatturato del 5,3%, a quota 95,9 miliardi di euro, il settore guarda con un timido ottimismo al 2025, ritenuto un anno di “tenuta”. L’idea che l’amministrazione Trump imponga nuove tasse su abiti e scarpe Made in Italy fa esprimere forti preoccupazioni al presidente della Camera nazionale della moda italiana (CNMI) Carlo Capasa, il quale tuttavia ricorda che in passato i dazi non furono applicati al tessile/accessori e segnala che dal Governo italiano è arrivata la rassicurazione che “ci sono interlocuzioni in corso”. La Moda è la seconda industria italiana, non dimentichiamolo. Restano sempre in sofferenza i settori chiave di abbigliamento, pelle, pelletteria e calzature, mentre “tirano” gli accessori come occhiali, gioielli e bigiotteria, nonché la cosmetica. Il ridimensionamento generale dei fatturati, nonostante l’aumento dei prezzi ha freddato aziende e lavoro: “Ci sono state meno vendite, e quindi nella parte bassa della filiera c’è una crisi per mancanza di pezzi prodotti”. Non a caso il settore al Governo ha chiesto – e in parte ottenuto – misure per aiutare le piccole aziende, spina dorsale del Made in Italy.
Gli USA rappresentano il terzo mercato per le esportazioni della moda Italiana, con un interscambio commerciale da gennaio a ottobre 2024 di ben 4, 5 miliardi per la moda e 3,1 miliardi per i settori collegati.
Confindustria Moda sottolinea d’altro canto “che per chiunque i dazi sono una scelta molto rischiosa, perché li impongo ma li posso anche subire, e quindi in questo senso non è mai un’azione a saldo attivo, fanno male ‘in andata’ e ‘in ritorno'” e “chi ha la possibilità di acquistare una cravatta premium a 250 euro non è che non l’acquista più a 300, come qualsiasi altro nostro prodotto premium. Non ci sono da aspettare problemi drammatici per il nostro sistema della moda soprattutto per imprenditori che sono abituati ad andare all’estero ed eventualmente anche a sostituire quel mercato”. Ce lo auguriamo!
In conclusione, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, il rischio di poter perdere delle quote di mercato sussiste senz’altro, ma è anche vero che il nostro è un sistema resiliente. Siamo esportatori abituali da sempre e quindi, qualora dovessimo avere problemi con gli Stati Uniti, ci orienteremmo vero altri mercati, almeno per un certo periodo, con la flessibilità che ci ha storicamente contraddistinto e fatto apprezzare.