Profumino di finanza in cucina
Il primo a solleticare l’interesse della finanza e del lusso verso i marchi della gastronomia italiana, facendone intuire le eccezionali potenzialità, è stato forse Oscar Farinetti con l’esperienza vincente della catena Eataly che ha trainato l’immagine del made in Italy gourmet nel mondo. In effetti da qualche anno a questa parte i colossi della moda e dell’investimento sono quanto mai “golosi” di etichette storiche della tradizione del Bel Paese ricco di biodiversità, e sembrano fare a gara per accaparrarsele prima che i prezzi salgano alle stelle. Chi non ricorda il “duello” che Prada e LVMH hanno ingaggiato qualche anno fa a Milano per acquisire la blasonata pasticceria Cova? Questa alla fine è passata in mani francesi, mentre Prada “si è rifatta la bocca” con Marchesi. Da Renzo Rosso (Diesel) a Marzotto, da Dolce&Gabbana ad Armani, da Roberto Cavalli a Trussardi, solo per “sfornare” qualche nome, sono sempre più numerose le maison che puntano sulla ristorazione/hotellerie e sul cibo tricolore di alta qualità in ottica di diversificazione e di brand extension, con l’obiettivo di offrire non più solo una griffe, ma un vero e proprio “stile di vita” a 360°. Dal canto loro, affidandosi ad acquirenti di questo calibro, le imprese alimentari – per lo più di piccole-medie dimensioni, eccetto pochi casi come Barilla e Ferrero – si assicurano i capitali per crescere, managerializzarsi e proiettarsi su scala internazionale, aprendo eventuali filiali all’estero (è il caso di richiamare Cova, che già nel 2009 aveva inaugurato una “boutique del dolce” ad Hong Kong, seguita poi da altri negozi).
Ai motivi per cui i giganti del lusso si orientano con determinazione in questo senso va aggiunto il fatto che il loro valore di mercato si sta ridimensionando, per cui tutti sono alla ricerca di nicchie diverse – metaforiche “comfort zone” finanziarie – potenzialmente proficue sul lungo termine (è noto che nel breve periodo la filiera agro-alimentare in genere non garantisce ritorni molto alti). E così anche i fondi di investimento, pur ragionando in prospettiva speculativa per eccellenza, hanno cominciato a condividere tale approccio, rendendo compatibili con i loro “appetiti bestiali” rendimenti che una volta sarebbero sembrati solo “antipasti”.
Un tuffo nel caffè
Uno degli ultimi nomi clamorosi del fashion system a inzuppare la brioche nel cappuccino, per così dire, viene dal mondo della biancheria intima e dell’abbigliamento: si tratta del marchio napoletano Yamamay di proprietà della holding Pianoforte che è titolare anche dei brand Carpisa (borse, valigeria) e Jaked (costumi da bagno). Ebbene, in città vedremo i primi YamaCaffè, il primo a Milano in zona Cordusio all’interno di un nuovo concept store Yamamay da 1000 metri quadrati, dove oltre che fare shopping è possibile fruire di caffetteria e ristorante. Il progetto, che sarà sviluppato internamente all’azienda senza ricorrere a partner specializzati, intende diventare anche il trampolino di lancio della griffe nel settore dell’home decor accessibile.
Ad ogni modo il vincolo tra fashion e food è sempre più stretto, come dimostrano altri investimenti recenti nella ristorazione da parte di aziende del settore moda. In pentola è finito anche Renzo Rosso, patron di Diesel, che ha aperto il Bistrot Glorious Cafè sempre a Milano, nella centrale Piazza San Babila (in collaborazione con Autogrill). Di fatto il capoluogo lombardo si conferma apripista e leader anche in questo ambito, essendo già da qualche tempo teatro delle “prove ai fornelli” di nomi importanti quali Trussardi (ristorante Trussardi alla Scala), Dolce & Gabbana (Gold), Armani (Nobu, Armani Cafè). Certamente anche Expo 2015 con il tema “Nutrire il pianeta” ha giocato la sua parte nel mettere il turbo a questo trend “goloso”.
Ad accomunare tali maison, in definitiva, è la volontà di trasformarsi in lifestyle brand per consumatori che amano circondarsi di cose belle e buone, ovvero vivere esperienze sublimi a tutto tondo che vanno dall’indossare capi formati all’arredare casa con oggetti di design, dall’alloggiare in hotel cinque stelle al cenare in locali di lusso, dall’ornarsi di gioielli al viaggiare in prima classe, dal rilassarsi in una spa favolosa al trattarsi con cosmetici e profumi sofisticati. Il Boston Consulting Group (BCG) ha appunto stimato che i consumatori globali di questo “lusso esperienziale” spendono 522 miliardi di euro all’anno.
Nunc bibendum est
Oltre che “affamati”, i colossi della moda e della finanza sono sempre più “assetati”, tant’è che società di assicurazioni come Generali, Allianz, UnipolSai controllano già prestigiose aziende vitivinicole italiane, agevolandone il salto di qualità, vale a dire accelerandone lo sviluppo competitivo e reddituale (Generali con Genagricola amministra una decina di tenute fra Toscana, Veneto, Monferrato, Friuli; la tedesca Allianz gestisce Agricola San Felice in Toscana, UnipolSai le Tenute del Cerro tra Toscana e Umbria). L’effetto del loro impegno non si limita agli aspetti finanziari, ma si concreta nell’adozione di metodi colturali avanzati e di nuove pratiche sperimentali di prodotto e di processo; nella messa in pratica di criteri di responsabilità sociale d’impresa così come di sostenibilità ambientale; nel rilancio dell’immagine e della reputazione che passa anche attraverso la ridefinizione dell’identità di marca.
Nessuna sorpresa quindi se il banchiere Alessandro Profumo si è risolto ad acquistare il 45% della azienda vitivinicola piacentina Mossi. E anche Renzo Rosso ha pensato bene di “scendere in cantina”, focalizzandosi sul vino biodinamico e facendo il suo ingresso nella catena di negozi BioNatura in ottica di crescita ed espansione oltreconfine.
Un esempio, quello del vino, che ha spinto pure alcune storiche cooperative italiane ad approcciare vari segmenti del settore alimentare, applicando lo stesso modello di business alle filiere del latte e del formaggio, in virtù di ampie partnership con imprenditori. Non stupisce quindi che Oscar Farinetti e Coop Alleanza, il maggior gruppo cooperativo europeo della grande distribuzione, abbiano deciso di realizzare il primo parco tematico al mondo dedicato all’alimentare di qualità. Fico (Fabbrica Italiana Contadina) – questo il nome della “Disneyland del cibo” che sorge a Bologna – ospita ristoranti, orti, attività artigianali di salumi e formaggi, laboratori di olio, vino, pasta, ecc. su una superficie di oltre 11 ettari. Il parco, progettato con la società che gestisce il mercato ortofrutticolo bolognese (Caab), è venuto a costare più di 100 milioni di euro e dato lavoro ad almeno 300 persone, attirando sei milioni di visitatori all’anno.
Crescete e moltiplicatevi
Crescita (è il caso dei Vini Farnese con 21 Investimenti) ed internazionalizzazione (si vedano i succitati Cova e Marchesi) sono le determinanti-chiave del matrimonio d’interesse tra moda-finanza-cibo. Ma, più nello specifico, possono ravvisarsi anche altri moventi e quindi obiettivi di queste manovre: la quotazione in Borsa (Eataly), la crescita (ad esempio le carni Inalca del Gruppo Cremonini, “cotte e mangiate” dall’italo-qatariota IQ Made in Italy Investments Company), il conseguimento della leadership (Doreca SpA in cui è entrato il fondo d’investimento NEM SGR), l’ingresso in mercati premium (Pasta Garofalo “addentata” dalla spagnola Ebro Food), il raggiungimento di sinergie operative (Pernigotti con la turca Toksoz Holding), più potere a livello distributivo (i dolci Rachelli con la svizzera Emmi AG).
Solo tra il 2012 e il 2015 ben 24 fondi di investimento sono entrati nel capitale di aziende alimentari italiane e 20 operatori stranieri hanno proceduto ad altrettante acquisizioni tricolori. Per crescere con la finanza servono comunque capacità e competenze, ma soprattutto bisogna essere consapevoli che si deve “volare alto”: puntare all’eccellenza, preservare la cultura del buon cibo italiano, il suo legame col territorio, il suo know-how, la sua qualità superba (fatta anche di rispetto per le materie prime, ricerca della stagionalità e manualità delle lavorazioni), la sua sostenibilità, e veicolarle con le opportune azioni di marketing (analogico e digitale), compreso un affascinante storytelling. In questo modo le aziende potranno posizionare i loro prodotti nelle fasce più alte di mercato, vincendo più facilmente la sfida competitiva e conseguendo margini più elevati. Il che attirerà ancora più risorse.
Sounds good?
Infine, una considerazione su come arginare quel deprecabile e assai dannoso fenomeno noto come Italian Sounding, ovvero il ricorso a luoghi, immagini e marchi che evocano l’Italia per promuovere prodotti che con essa non hanno nulla a che fare, traducendosi quindi in pura truffa ai danni dei consumatori, oltre che in concorrenza sleale. Si stima che due prodotti su tre venduti all’estero siano riconducibili al nostro Paese in modo ingannevole. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico il giro d’affari annuo dell’Italian Sounding è di circa 54 miliardi di euro, vale a dire oltre il doppio del valore delle esportazioni nazionali di prodotti agroalimentari (23 miliardi di euro).
Come ridurre drasticamente questa piaga? Bisogna innanzitutto educare il consumatore finale a riconoscere l’origine e la superiorità qualitativa degli alimenti italiani. Ma allo stesso tempo, perché non sfruttare questa insidia a nostro vantaggio, volgendola in un’operazione pubblicitaria low cost per le imprese tricolori? Ebbene, se ci copiano, vuol dire che siamo i più bravi ed quindi cari consumatori è chiaro che l’originale è meglio dell’imitazione!