Psicologia di Gran Lusso
Che cos’è un bene di lusso? La miglior risposta potrebbe forse essere la seguente: è quel bene grazie al quale abbiamo (e siamo) qualcosa che gli altri non hanno (e non sono). E’ ciò che ci fa sentire “cool”, per dirla all’americana. Per buona parte del XX secolo essere “cool” significava poter disporre delle innovazioni tecnologiche più all’avanguardia in vari campi; poi, quando la produzione di massa rese disponibili ad un vasto pubblico oggetti standardizzati, associandoli all’idea di modernità, progresso, industria, si affermò un nuovo concetto di “cool” legato all’artigianalità, al patrimonio ereditario, alla personalizzazione. Non si trattava ovviamente di un artigianato ripreso pari pari dal passato, ma di una metodologia professionale fondata sull’eccellenza del design, delle materie prime, della tecnica professionale, dell’aggiornamento tecnologico continuo. Nasceva così la moderna industria del lusso come oggi la conosciamo.
La fortuna di questa concezione – in particolare l’idea di vendere esclusività a migliaia di persone – crea comunque un inevitabile paradosso: come si fa ad essere “cool” ed esclusivi quando si ha sempre più successo e si raggiunge sempre più gente? In un primo tempo ciò non venne visto come un problema; poi l’esperienza di Pierre Cardin fece riflettere gli addetti ai lavori. Furono inventati molti stratagemmi per prolungare nel tempo l’effetto “cool”: diversificazione del marchio (stilisti italiani, a cominciare da Armani), stretto controllo della distribuzione (Louis Vuitton), riposizionamento della marca e aumenti di prezzo (Burberry), vendita iper-selettiva (Hermes). Ma nessuno di questi sistemi è perfetto e, alla lunga, nessuno funziona.
La questione è che le barriere all’entrata nel settore del lusso sono prevalentemente nelle cosiddette SG&A (Selling, General and Administrative Expenses), ovvero negli investimenti in pubblicità e rete al dettaglio. Le economie di scala sono un fattore-chiave, per cui i player di maggiori dimensioni possono permettersi di sostenere certi costi e reggere la concorrenza. Eppure le barriere all’entrata in termini di COGS (Cost Of Goods Sold) sono relativamente basse nei comparti della moda, dove la manifattura è in larga misura manuale e richiede modesti capitali per l’automatizzazione; la distribuzione è piuttosto semplice e alti margini consentono ai produttori minori di compensare facilmente gli svantaggi logistici.
Le barriere all’entrata connesse al marchio sono una lama a doppio taglio. Quando la domanda sorride ad un brand, le barriere diventano invalicabili. Nel momento in cui i consumatori diventano più sofisticati, il rischio è che essi desiderino qualcosa di diverso, qualcosa che li faccia “distinguere”. La parabola di Coach (accessori fashion) è esemplare: ad un certo punto Coach divenne talmente “cool” che tutti lo volevano, tutti lo compravano, tutti lo possedevano e quando arrivò qualcun altro con un’alternativa (Michael Kors, Tori Birch), molti lo abbandonarono.
Un simile scenario può verificarsi anche per i nostri marchi del lusso? In un certo senso, questo sta già accadendo, sebbene al rallentatore. Una soluzione è quella di portare il marchio e la sua aura “cool” in nuovi ambiti, ma ciò è attuabile fino ad un certo punto: sono pochi i brand che possono permettersi di aprire negozi su scala planetaria! Ancora peggio, aprire il marchio ad un’audience più ampia rischia di accelerare il processo di evaporazione dell’alone “cool” agli occhi dei consumatori più sofisticati, che possono lamentare: “Se ce l’ha anche la mia segretaria, io acquisterò qualcos’altro”. La fortuna dei mega-brand sta nella loro capacità di reclutare nuovi consumatori, sostitutivi di quelli persi al top, o attraverso nuove boutique o tramite la spinta all’innovazione o grazie allo sviluppo socio-demografico. La sfortuna, invece, sta nella velocità con cui i clienti si spostano come uno sciame di cavallette verso i nuovi marchi. A tante cavallette si possono comparare anche i clienti cinesi di beni di lusso, che adorano fare shopping, si spostano rapidamente e non sembrano particolarmente fedeli alla marca.
Un’altra maniera per i leader del lusso di vincere la scommessa è quella di diversificare i loro portafogli di marchi, come hanno fatto egregiamente Kering (ex-PPR), Gucci, Bottega Veneta, LVMH. Ora, a fronte di una domanda in crescita, con consumatori raffinati e molto frammentati, è lecito attendersi che i leader del lusso decidano di ricorrere ad ulteriori fusioni e acquisizioni, tanto più che molti di essi dispongono di parecchia liquidità.
Per comprendere meglio le dinamiche del settore dei beni di lusso, consigliamo la visione dell’ottimo rapporto – “LUXURY GOODS: Psychology & Mechanics” – elaborato da Luca Solca, Managing Director Sector Head Global Luxury Goods, Exane BNP Paribas (www.exanebnpparibas.com), in collaborazione con Paola Bertini e Hui Fan. Ne riportiamo l’incipit originale: “There is a lot in this primer, focusing on the competitive dynamics and levers to build competitive advantage in the luxury goods industry. One key message we want to emphasise here is barriers to entry. There is a major structural difference between fashion, leather and jewellery – on one hand – and watches, fragrances and cosmetics, winese and spirits – on the other. The former enjoy SG&A related barriers: communication and retail costs favor scale – but no COGS related barriers, as manufacturing is largely manual and involves no major investment. The latter combine SG&A and COGS defences – either because manufacturing is highly automated and requires massive capex (and volume) to create an efficient COGS position (watches), or because logistics is very complex (fragrances and cosmetics, wines and spirits). This makes a huge difference in defensibility in the long term. Riding the middle class in EM is all very well, but what we care about is how defensible this proposition will be in the face of new entrants, local me toos, etc. Watches, fragrances and cosmetics, wines and spirits promise materially better defense barriers than fashion, leather and jewellery”.
Particolarmente interessante è la parte di analisi riferita alla psicologia di base dei beni di lusso:
– “Mi sento ricco, quindi compro”
– “Guarda quanto sono cool”
– “Non sono come te”
– “W la personalizzazione”
– “Le disuguaglianze economiche sono i migliori amici del lusso”
I beni di lusso sono un segnale indirizzato agli altri per accrescere la propria visibilità e ciò è soprattutto evidente in Paesi come Russia, Medio Oriente, Cina. I consumatori più raffinati preferiscono prodotti di nicchia, meno appariscenti, che denotano cultura e sofisticazione dei gusti. Si assiste, inoltre, ad una crescente propensione al “fatto su misura”, per cui la domanda dei beni di lusso non è più monolitica, ma composta da un mosaico di pretese. Infine, va obiettivamente rilevato, sebbene suoni un po’ fuori luogo in drammatici tempi di crisi come questi, che le forti differenze di reddito giovano al lusso: si vedano i casi di Cina e Russia. Laddove, invece, esiste una certa uniformità reddituale, come nei Paesi scandinavi, la percentuale della spesa per i beni di lusso sul Prodotto Interno Lordo è più bassa.
Dura sed luxury.