Quando la fantasia era al potere
C’è chi l’ha mitizzato e c’è chi l’ha demonizzato, chi tuttora ne rivendica lo spirito rivoluzionario e chi gli imputa tutti i mali che sono venuti dopo. A prescindere da come la si pensi, il ’68 è stato un anno estremamente importante sotto il profilo socio-culturale in tutto il mondo (a partire dal 1963, dalla famosa “Rivolta di Berkeley” in USA), ma soprattutto in Europa, dove il maggio francese ha fatto da apripista a tutti gli altri fenomeni di cambiamento radicale.
Anche a livello estetico la sua influenza è stata notevole e, 50 anni dopo, si fa ancora sentire nei costumi e nei look dettati dagli stilisti. In primis Maria Grazia Chiuri, direttore creativo di Dior, che già l’anno scorso, impartendo la sua “benedizione” alla mostra sul ‘68 alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, lasciava intuire in quale direzione si sarebbe mossa. In effetti, la stilista italiana ha deciso di ripescare nell’archivio di Dior alcuni pezzi iconici di quell’epoca e di rielaborarli in chiave contemporanea, ispirata dalla vecchia foto di un gruppo di ragazze che davanti alla boutique Dior protestava con cartelli su cui era scritto: “Dior sei ingiusto con la minigonna”. Dior avrebbe poi risposto a queste istanze di “democratizzazione” con il lancio di Miss Dior, una linea pret à porter.
I codici creativi della Chiuri si sostanziano comunque anche di precisi riferimenti culturali e forti convinzioni personali poggianti su un deciso senso di responsabilità e consapevolezza femminile, per non dire femminista. Commentando le sue proposte, lei stessa ha spiegato di pensare “alle copertine di tanti giornali femminili che aiutarono le donne nelle battaglie sociali o al famoso convegno a Versailles organizzato dalla direttrice di Elle France nel ‘70, che fu una sorta di Stati Generali con quasi duemila donne partecipanti. Ora ci sono i giovani che influenzano il dibattito, globale, attraverso la rete, come non coglierlo? Sono più svegli e informati di noi”.
La direttrice creativa di Dior non perde poi l’occasione per spiegare la sua idea di moda, “che non è più solo forme. Ma anche espressione. Che ho trovato nell’artigianato, nella creatività di certe mani femminili che hanno fatto questi abiti all’uncinetto o questi incredibili patchwork cuciti a mano, uno a uno. Autenticità credo sia quello di cui oggi abbiamo bisogno”. Ecco allora le sue modelle un po’ androgine, le quali sfilano come semplici ragazze che al tacco a spillo preferiscono gli zoccoli e gli stivali da motociclista, e anziché abiti attillati scelgono poncho e pezzi folk, così come snobbano i pantaloni strutturati in favore di jeans customizzati. Sono ricami, patchwork, tricot, croquet ad esaltare la dimensione artigianale e multiculturale, per abitini finto-bon ton appena sopra il ginocchio, gonne midi, giacche, maglie, persino kilt.
Non solo Dior. Anche altre maison, soprattutto d’oltralpe, si sono tuffate nel revival sessantottino, talvolta idealizzandolo (ma conservando una visione distaccata dalla politica) e recuperando i codici del linguaggio protestatario e del vento di libertà che sconvolsero il mondo mezzo secolo fa: Gucci con i suoi hippie-chic contemporanei, Etam che trasforma le vetrine dei suoi negozi in free walls per le clienti, Sonia Rykiel con la sua borsa “Le pavé parisien” in pelle di toro, Camaïeu che ha imperniato la sua comunicazione sullo slogan libertario “Rêve général” (“Sogno generale”).
Preservando un’immagine soprattutto estetica dei fermenti politici di quegli anni, gli stilisti hanno insomma concepito un prodotto, una campagna o un evento ispirato ad esso, cercando di collegare l‘anniversario all’attualità e facendo risalire la nascita del pret-à-porter proprio al ’68.
Alla radice di tutto forse c’è anche la volontà di assecondare un pubblico che chiede sempre più alla moda di essere uno strumento di espressione della propria individualità e dei propri valori. E – come ha spiegato sempre la Chiuri – “se c’è un valore che viene richiesto alla moda è proprio il fattore umano, quell’artigianalità che permette a un bene di lusso di durare oltre il tempo, di essere tramandato, di diventare significato per chi lo indossa oggi e per chi lo indosserà domani”.
Ecco dunque come viene declinato il revival del ’68 in questo 2018 foriero di cambiamenti che, se non sono proprio rivoluzionari, qualche vibrazione forte la provocano ed esprimono comunque una voglia di autenticità e di originalità.
Quanto al resto (ribellione, estremismo politico, eccessi libertari), dal nostro punto di vista quel periodo è stato – per usare le parole di Dino Buzzati – “una cretineria bell’e buona”. Il sociologo Sabino Acquaviva ha spiegato: “I modelli di comportamento del ’68 hanno mutato il costume in profondità e così – sradicando, con il concorso di altri fattori, la struttura della famiglia – hanno contribuito a indurre la crisi, la crisi della civiltà”. E il compianto cardinale Ersilio Tonini ha commentato a suggello di tutto: “Se il pensiero non è disciplinato, non riusciamo più a far nulla e ci troveremo dinanzi solo i residui del ’68, i residui della mentalità soggettivistica che confonde sincerità, spontaneità con la bontà e con il valore, che prende la festa in sé come motivo, come valore, non curandosi poi se la festa distrugge l’uomo”.