Quando la Storia entra nei costumi
La Storia è un meccanismo grande e complesso, di cui conosciamo il corso preciso degli eventi. E’ uno dei soggetti preferiti del cinema, più o meno modificata, che mira non tanto a creare una buona trama, siccome gli eventi sono noti a tutti, quanto a delineare grandi personaggi, la cui forza e la cui passione conquistano il pubblico. Quanto ai costumisti si predilige spesso la ricerca storica e l’evolversi degli avvenimenti, al carattere dei personaggi . Due film recenti aiutano a comprendere meglio questo concetto.
Agorà (2009, Alejandro Amenabar) racconta la vita di Ipazia di Alessandria (370- 415 d.C.), filosofa e scienziata che operò nella celebre biblioteca della città, in un periodo in cui lo scontro violento tra pagani e cristiani era all’ordine del giorno. Atea in un mondo straziato da questi conflitti religiosi e in cui le donne non contavano niente, Ipazia, interpretata dallattrice premio Oscar Rachel Weisz, assiste alla distruzione dell’amata biblioteca da parte dei cristiani (così nel film con un evidente falso storico), ma continua la propria attività, subendo le accuse del vescovo Cirillo, fino alla morte ad opera di un gruppo di fanatici cristiani. Ma la storia entra prepotentemente nei costumi: i pepli semplici e bianchi, decorati con qualche perla, lasciano il posto, dopo la distruzione della biblioteca, a vesti uguali ma tinte di rosso, porpora e viola, presagio del bagno di sangue che chiuderà la sua vita e la sua storia.
Se quindi in “Agorà” i costumi seguono drammaticamente il corso degli avvenimenti storici, ne L’uomo che verrà (2009, Giorgio Diritti) avviene l’esatto contrario. Il film narra della vita a Marzabotto, piccolo paesino emiliano, poco prima dell’eccidio da parte dei nazisti del 1944, attraverso gli occhi di una bambina, Martina, che ha smesso di parlare da quando il fratellino le è morto fra le braccia e che attende con impazienza la nascita di quello nuovo. Martina è una muta osservatrice di ciò che avviene attorno al paese, degli atti di violenza dei nazisti e dei partigiani, protetti e nascosti dalla gente di Marzabotto. Lei viene definita “selvatica” da tutti i paesani, anche dai genitori, perchè passa tutto il tempo nei boschi, a piedi scalzi. Com’è ovvio, i suoi indumenti sono scuri, semplici e poveri, tenuti senza alcuna cura e perennemente sporchi e da rammendare. Si fa una fatica immane a farle indossare l’abito bello della domenica, e i vestiti che non vuole mettere li rovina lei stessa con le forbici. Ma per il giorno della sua comunione indossa un abito bianco con decorazioni floreali colorate, che la fanno sembrare un raggio di sole e in cui si sente benissimo. Questo è l’ultimo vestito che indossa prima dell’eccidio: se il suo animo, anche attraverso l’abito che indossa, si distende, non lo fa la storia, che prende la piega opposta rispetto a quella che i costumi hanno fatto presagire.
grande ceci!! mi è piaciuto molto!!