“Sappi, prima di tutto, chi sei, e ornati di conseguenza”
Continuando il discorso sul rapporto tra identità personale e moda offriamo il secondo articolo sull’argomento. Di seguito il link al primo “Identità personale, corpo e moda”.
Tradizionalmente all’abito vengono assegnate le funzioni di coprire il corpo -per ripararlo dagli agenti atmosferici, per custodire l’intimità-, di adornarlo. Ma anche di raccontare chi si è: cioè rappresentare l’identità personale di quel corpo concreto. Esprimere in nome del corpo e quindi della persona, l’età, il ruolo, la posizione sociale, la professione, l’appartenenza o anche una certa personalità -romantica, piuttosto che sportiva, autorevole piuttosto che frivola, creativa piuttosto che tradizionalista e così di seguito. L’abito insomma “struttura” in qualche modo, non solo l’identità antropologica, ma anche culturale di chi l’indossa.
Il legame, ad esempio, tra abito e ciò che si deve o si vuole apparire è determinante per il riconoscimento dell’appartenenza ad un gruppo: in questo caso l’abito è un simbolo e come tale esibito. Il tartan è un simbolo ed è esibito con l’orgoglio di appartenenza ad un determinato clan. Oppure l’abito è il simbolo di una funzione/servizio: è il caso della divisa per il militare o dell’abito talare per il sacerdote. Gli esempi possono essere tanti.
Ma può anche acquistare il significato di appartenenza ad un ceto sociale con un particolare potere d’acquisto. Chi lo indossa dichiara: mi posso permettere l’abito o l’accessorio di una griffe di fama internazionale, quello indossato da una celebrity di fama mondiale in un evento mondano.
Ecco che in tutti questi casi l’abito è servito a indicare la identità sociale: chi siamo, a quale ceto sociale apparteniamo.
Il linguaggio dell’abito però non è univoco. Esso serve a dichiarare l’appartenenza -ad un gruppo sociale, a una cultura, ecc.; ma serve per esprimere la necessità di distinguersi: ciò però sembra possibile solo fuori dalle dinamiche della moda, potremmo dire se non seguiamo la moda. Per comprendere questo fatto dobbiamo considerare la parabola di affermazione di una tendenza di moda. Inizialmente una tendenza, una innovazione, una novità nel modo di vestire ha scarsa diffusione. Utilizzarla in quel momento vuol dire distinguersi, si appare diversi dagli altri. Poi la tendenza diventa moda; man mano con il tempo è assunta –utilizzata- dalla massa, imitata universalmente. Perde allora il carattere elitario, si “democratizza”, si “involgarisce”; non serve più come elemento distintivo, ma si trasforma in elemento che parla un’altra volta di appartenenza -in questo caso alla massa-, di adattamento e conformismo.
A questo punto per distinguersi è necessario mantenersi fuori dal coro della moda e ciò lo si può fare in due modi. Cercando di essere fuori moda a tutti i costi, attraverso la ricerca di una originalità che sconfina spesso nell’eccentricità e trasgressione. Oppure cercando una interpretazione personale della tendenza, adattandola alla propria identità: scegliendo -creando- per sé ciò che è meglio per sé. In questo caso saremo sempre originali, in contatto con la modernità -la tendenza di moda-; vestiremo alla moda non come chi sta imitando, ma come chi sta esprimendo l’assoluta unicità del proprio essere e ciò sarà possibile perché l’abito è espressione della identità personale che non è riproducibile e quindi imitabile.
Il modo personale di interpretare la tendenza diventa allora stile, eleganza personale.
L’abito è anche il modo di esprimere di volta in volta una delle molteplici funzioni che svolgiamo nei diversi contesti sociali in cui dobbiamo operare: funzioni che di fatto si risolvono in qualche modo in prendere “identità successive”, “contingenti”, espressioni della singolare ricchezza della persona, sfaccettature della sua identità, espressioni del proprio ruolo sociale. Ci vestiamo diversamente quando svolgiamo una funzione professionale nella sfera pubblica da quando esercitiamo la funzione paterna/materna nella sfera del privato. Se ci troviamo in un momento di relax -allo stadio con gli amici tifosi-, o quando siamo in un contesto sociale anche di relax, ma comunque rappresentativo del nostro status -in crociera per esempio-, l’abbigliamento sarà diverso. Ci si veste diversamente per una cena di lavoro in un ristorante super raffinato e per una cena in trattoria con la famiglia.
In questo caso dobbiamo dire che abito è il veicolo per assumere “successive identità”, diverse secondo una “scelta” contingente e momentanea. Tale scelta è -per gli esempi che stiamo esaminando-, determinata dal contesto in cui la persona deve muoversi: il lavoro, lo svago o una occasione particolare. Quindi è una scelta sociale: l’abito aiuterà a impersonare quella identità che è utile o necessaria nel momento attuale.
Ciò non solo è lecito, ma necessario, e non rappresenta in assoluto un aspetto negativo del fare e del comportamento della persona o un tradimento della propria identità: succede che l’identità di una persona matura si esprime secondo le diverse funzioni che svolge nella società. Si tratta di scegliere l’abito adeguato ad ogni circostanza. Questa scelta permette di sentirsi e muoversi a proprio agio nei vari contesti in cui si opera e di essere accettati dal contesto stesso. Risulta sempre molto imbarazzante per chi è invitato, ma anche per chi invita, presentarsi ad un ricevimento avendo sbagliato l’abbigliamento. Ma sarebbe ugualmente imbarazzante ad esempio entrare in uno studio notarile e trovarsi tra persone, anche se si tratta delle segretarie, con un abbigliamento disinvolto, succinto. La domanda che ci si potrebbe porre riguarda l’affidabilità di chi opera in quel contesto professionale. E’ ugualmente strano se in una officina ci trovassimo con i meccanici in giacca e cravatta, dubiteremmo del fatto che vogliano mettere mano al motore della nostra auto.
Ma ecco che esiste anche un aspetto negativo dell’utilizzo dell’abito come veicolo di rappresentazione della propria identità: non avendo una personalità definita, conquistata attraverso una maturazione personale, l’individuo sceglie una identità che non gli appartiene e di conseguenza si veste in modo da rappresentare quello che gli piacerebbe essere, ma non è. E’ questo il caso dell’adolescente che sceglie l’abbigliamento del gruppo come espediente per essere accolto nel gruppo. Ciò succede anche in soggetti adulti che, o non hanno maturato una propria identità, o non vogliono accettare la condizione che devono vivere. L’abito non rispecchia in questo caso l’età, il ruolo, l’appartenenza ad una condizione sociale.
Se potessimo parlare di una antropologia postmoderna, dovremmo dire che l’uomo postmoderno vive questa condizione: non ha una identità stabile, non ha radici su cui costruire la propria identità – perché ha distrutto la tradizione, la cultura delle sue origini, la storia della sua vita -, ed inoltre non ha neppure un progetto di vita su di se: non sa di chi vuole o deve arrivare ad essere. In questa condizione, l’abito non è una rappresentazione della persona, una “presentazione” della propria identità a favore della “società”, un mezzo perché gli altri conoscano chi si è e conseguentemente “riconoscano” la mia identità/dignità. E’ una maschera, un travestimento, una non verità su di se.
L’esempio più significativo della nostra epoca è l’atteggiamento giovanilistico, frutto di una cultura che ha mitizzato l’età giovanile come l’epoca della vita che bisogna conservare a tutti i costi. Ed allora madre e figlia possono vestire allo stesso modo; non ci meravigliamo che un professionista affermato porti uno “spiritosissimo” casco che lo fa somigliare ad un coniglietto, o una sessantenne vada con una gonna corta degna di una sedicenne.
Ciò detto, ci sembra modernissimo il suggerimento di Epitteto, filosofo greco vissuto tra il 50 e il 120 d.c., esponente dello stoicismo “Sappi, prima di tutto, chi sei, e ornati di conseguenza”.