Se l’abito fa da corazza
A cosa serve un abito? Le sue funzioni sono molteplici: essenzialmente dà una certa immagine della persona che lo indossa e perciò può essere anche una protezione dal mondo esterno, una corazza che protegge dagli sguardi e dai giudizi degli altri. Spesso ci vestiamo nel modo che ci sembra opportuno per essere meglio accettati dagli altri, per evitare i loro giudizi negativi e la conseguente esclusione da quell’abito sociale. Ma arriva il momento in cui bisogna scegliere se adottare l’abito che più ci si addice perché rispondente alla nostra personalità; o quello che ci rende accetti in un ambito sociale che ci interessa, ma che “traveste” la nostra personalità. Un paio di film offrono qualche spunto su cui riflettere.
“Edward mani di forbice” (1990, Tim Burton) narra la surreale storia di Edward, robot trasformato in essere umano dal suo geniale inventore, morto però prima di completarlo: per questo motivo, al posto delle mani, ha una serie di forbici. Edward vive rintanato nell’oscuro castello che sovrasta una piccola cittadina americana, finchè Peggy, rappresentante di una ditta di cosmetici, non lo scopre e decide di portarlo a casa con sè per inserirlo nella società umana. Ma Edward, con quelle mani che non gli permettono di toccare un oggetto o di stringere una persona e che anzi incutono timore, non viene ben accolto. I suoi capelli neri lunghi e arruffati, la sua pelle pallida ricoperta dalle cicatrici che si è procurato cercando di toccarsi e la strana corrazza di pelle nera che indossa, la quale lo ricopre interamente, decorata con borchie e cinture spesse non aiutano di certo, e Peggy decide di “normalizzarlo”, almeno dal punto di vista dell’abbigliamento: non senza qualche fatica, riesce a renderlo un pò più presentabile infilandogli una camicia bianca e un paio di pantaloni neri sopra la sua corazza. Nonostante le apparenze ostili, in netto contrasto con gli abitanti della cittadina, che si vestono di colori sgargianti e vivono in villette delle stesse tonalità, Edward è buono, tenero e gentile: l’unica cosa che vuole fare è aiutare gli altri, soprattutto i suoi cari. Pian piano, Edward reisce a conquistare tutti gli abitanti, prima come giardiniere, poi come parrucchiere per cani e infine per donne, trasformando i cespugli in creature fantastiche e i capelli delle signore in acconciature asimmetriche e stravaganti. Si innamora subito di Kim, la figlia di Peggy, ma una serie di circostanze mutano l’opinione che la gente ha di lui, che comincia a vederlo come un mostro pericoloso. Alla fine, Edward è costretto a smettere gli abiti “normali” e ad abbandonare Kim per ritornare a vivere nel castello, isolato da tutti come prima: il suo abbigliamento comune, che finora gli ha fatto da rifugio protettivo, non lo protegge più, non lo fa più sentire simile agli altri. Viene da chiedersi se siano gli abitanti della cittadina a doversi vestire di nero e se sia invece Edward a dover indossare i colori allegri e accesi che questi sfoggiano. Ma Edward indosserà per sempre la sua corazza nera, dopo aver forse capito che la sua diversità non è un male, anche se non gli permette di vivere in mezzo ad altre persone.
“Fur- Un ritratto immaginario di Diane Arbus” (2006, Steven Shainberg), invece, offre un ritratto immaginario di Diane Arbus (1923-1971), la celebre fotografa americana che negli anni Sessanta ha scandalizzato il pubblico con i suoi ritratti di emarginati sociali ripresi nel loro ambiente.
All’inizio del film, Diane viene ritratta come la tipica casalinga anni Cinquanta, tutta casa, marito e figlie, impeccabile nelle sue gonne a ruota e nelle sue acconciature senza un capello fuori posto. Ma ci si accorge subito che Diane si sente soffocare da questa vita: alla presentazione della nuova collezione dell’azienda produttrice di pellicce posseduta dai suoi genitori, sua madre la rimprovera di averla già vista sfoggiare il vestito che si messa e quando viene costretta a sfilare con una pelliccia assieme alle altre modelle sembra sul punto di svenire da quanto non si sente a suo agio. La pelliccia (da qui il titolo del film, fur, che in inglese significa pelliccia) allora rappresenta tutto quel mondo di convenzioni che, non permettendole di esprimere se stessa, la fanno soffocare, pur se le forniscono un guscio protettivo dai giudizi degli altri. Anche la fotografia all’inizio è una costrizione del marito, fotografo di moda. Ma i gusti di Diane si rivelano già da subito “strani” se confrontati con le scelte del marito e per l’ambiente in cui si muove: il ritratto che vorrebbe fare è quello di Lionel, lo strano vicino di casa, col volto perennemente coperto da una maschera, con cui pian piano fa amicizia e che la trascina nel suo mondo di nani, giganti, gemelli siamesi e emarginati che sembrano usciti da un circo orrido e grottesco. Diane è affascinata da questo mondo, che sarà soggetto delle sue prime fotografie e che la assorbirà tanto da allontanarla dal marito e dalle figlie. Di pari passo, abbandona i suoi abiti da perfetta casalinga per uno stile meno impegnativo, più semplice e trascurato, ma anche più consono all’ambiente in cui professionalmente vuole muoversi: nella fotografia ha finalmente trovato la sua vera essenza e il coraggio di abbandonare le convenzioni di un ambiente che non amava.