Sfogliando la moda
Quanti libri di moda e sulla moda si stanno pubblicando negli ultimi tempi! Pare che sia in costante crescita il numero di coloro (non solo addetti ai lavori) che sentono l’esigenza di riflettere sui fondamentali tanto del fenomeno quanto degli epifenomeni. Non è solo una questione di autoreferenzialità; piuttosto, anche e soprattutto i non-insider hanno capito che la moda è uno degli indicatori più sensibili a disposizione per capire il pensiero, la società e l’economia in cui viviamo.
Si prenda ad esempio “La filosofia del corpo” di Michela Marzano (Il Melangolo, Genova), che alla luce di un presente in cui la bellezza del corpo è divenuta un must di moda, ripercorre la storia del concetto, dal disdegno platonico della materialità fisica alle speculazioni del secondo “˜900 sulla sessualità come finzione culturale imposta ai singoli individui. Secondo la Marzano (già autrice di “Sii bella e stai zitta”, Mondadori), la filosofia deve occuparsi delle ossessioni del nostro tempo e oggi più che mai in cima a queste sta il corpo, considerato una sorta di mero involucro da modificare a propria discrezione con la chirurgia plastica o un virtuale avatar. Di tali degenerazioni non è responsabile (o meglio: non è responsabile solo) la moda, ma la radice di parecchi mali sta in un perverso ideale di libertà inculcato nella nostra forma mentis da un marketing selvaggio, killer dei valori autentici e seminatore di disvalori diabolicamente nocivi.
In proposito, ci può essere utile senz’altro leggere anche “Contro la falsa bellezza” di Tommaso Ariemma (Il Melangolo, Genova), che affronta gli stessi temi, ragionando su quella nebulosa mediatico-pubblicitaria che promuove un’estetica post-umana, e alla fine ci invita a rispondere nella profondità del nostro animo alla domanda: dopo aver alterato una o più parti del nostro corpo, saremo veramente più “liberi di essere noi stessi”, come recita la pubblicità?
Passando a tutt’altra latitudine tematica, consigliamo un bel viaggio tra letteratura e stile nei testi letterari degli ultimi tre secoli. Lo percorre per noi Fabiana Giacomotti in “La moda è un romanzo” (Cairo editore), ricostruendo la moda di ogni epoca in base ai ritratti dei personaggi tratteggiati nei grandi romanzi. Ci sfilano davanti, così, la Lucia manzoniana in busto broccato a fiori tipico delle contadine lombarde secentesche, l’Angelica del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa in abito da ballo rosa pallido, il balzachiano Lucien de Rubempré in gilet dai colori sgargianti nella Parigi delle “Illusioni perdute”, la provocante Lolita di Nabokov in bikini a pois, la Holly Golightly di “Colazione da Tiffany” in tubino nero, solo per citarne alcuni. La Giacomotti osserva quanto gli scrittori non solo amino raccontare la storia dei loro eroi, ma indulgano pure a “vestirli” secondo gli stili del rispettivo tempo.
Può essere utile poi, per meglio capire in quali direzioni la moda (nonché il mondo) sta andando, rileggere un libro di una decina d’anni fa che ci guida nel complesso sistema culturale cinese, focalizzando vari aspetti (tra cui la moda) e spiegando come agisca la contaminazione tra Occidente e Oriente, ovvero dimostrando come si fondano gli stereotipi estetici delle due macro-aree e si scambino segni, simboli, pensieri. Si tratta di “China Chic” di Vivienne Tam (Regan Books-an imprint of Harper Collins Publishers, Londra). Ne emerge un Paese dei Mandarini dallo charme fiabesco, in grado di esercitare un appeal irresistibile sui “creativi” del nostro Continente. Così, se le giacche ricamate di Megan Park o di Sebastiano Barbagallo spiccano nelle più sofisticate vetrine metropolitane e l’avanguardia stilistica si cimenta in cineserie preziose foderando i soprabiti di dragoni e fantasie floreali, nella China Town milanese si trovano eleganti cheungsam (i tipici abiti del Nord nati negli anni Venti) in tinte brillanti come smalti, e poi le tradizionali chiusure (huaniu) realizzate con applicazioni di tessuto, ricami in rilievo che rappresentano elementi naturalistici di buon augurio, e, ancora, incrostazioni di perline, sete e broccati che convivono senza imbarazzi con acrilico e materiali sintetici vari. Quasi tutto appare all’insegna dei bagliori dorati, per consumatori occidentali che rigettano l’understatement e sognano esotiche opulenze.
Tra i volumi di non recente uscita ci piace ricordare anche “Editori lettrici e stampa di moda. Giornali di moda e di famiglia a Milano dal Corriere delle dame agli editori dell’Italia unita” (Franco Angeli, Milano) dell’attenta ricercatrice Silvia Franchini, che ha indirizzato i suoi studi alla “specialità” editoriale della città ambrosiana. Nel campo dei periodici di moda la figura che maggiormente si distinse fin dagli albori del genere risulta l’illuminato editore Alessandro Lampugnani, il quale si accorse che a metà “˜800 da un lato andavano maturando le valenze sociali dell’abito, mentre dall’altro si faceva strada il bisogno di una letteratura più leggera per il pubblico femminile. Oltre che del “Corriere delle dame” il Lampugnani fu fondatore di periodici come il “Giornale delle famiglie”, “Ore casalinghe”, “La ricamatrice”, che segnarono il passaggio dalla formula mista (figurini, notizie, recensioni teatrali) alla rivista specializzata. Va sottolineato che queste testate – il “Corriere delle Dame” in particolare, su cui nel 1870 venne pubblicata a puntate la “Storia di una capinera” di Giovanni Verga – giocarono un ruolo di rilievo pure sul piano del linguaggio, promuovendo l’uso dell’italiano al posto del raffinato francese da una parte e dei rozzi dialetti dall’altra. Ma ancora più decisiva fu la loro funzione di sprone nei confronti delle donne a farsi madri-educatrici e, quindi, a diventare motori del risorgimento civile e morale dell’Italia. La Franchini osserva che fu poi il crescente condizionamento dell’industria dell’abbigliamento sulla stampa di moda a provocarne, già a fine “˜800, la cristallizzazione nella visione del mondo femminile e quella concezione un po’ frivola dello stile, che tutt’ora non l’ha abbandonato del tutto.