Un business chiamato perla
Quella per le perle è un’attrazione che, lungi dall’esaurirsi, cresce anno dopo anno nel pubblico, trainata da campagne di comunicazione esemplari e da continue innovazioni produttive e di design.
Parte del loro appeal consiste nel fatto che sono generalmente percepite come “naturali”, formatesi in un organismo vivente piuttosto che nelle profondità della terra. Poi vengono la suggestiva lucentezza ed il tepore che dischiudono quando sono indossate sulla pelle, tanto da assurgere a catartico emblema d’amore, ben addicentesi alle spose. Ma forse è ancora più importante, sotto il profilo delle vendite e del marketing, l’ampia gamma di stili e di prezzi che assicura ad ogni donna l’occasione di possedere un gioiello classico ed elegante.
Fuori dal mondo della gioielleria, le perle sono tradizionalmente concepite come bianche e rotonde, ma ci si deve rendere conto che oggi l’industria della perla coltivata è in grado di offrire una miriade di scelte in termini di colore, forma, dimensione, prezzo e tipo. In origine le perle coltivate d’acqua salata sono solo le celebri Akoya, ma quelle tahitiane e dei mari del Sud hanno guadagnato parecchio terreno negli ultimi decenni, per non parlare delle perle coltivate d’acqua dolce.
Ora, prese tutte insieme a livello mondiale, queste perle ammontano ad oltre 550 tonnellate all’anno, per un valore di circa 550 milioni di dollari.
Di questa produzione totale le perle Akoya rappresentano solo una quota ridotta (poco più di 40 tonnellate), ma giocano la parte del leone in termini di ricavi (ben 180 milioni di dollari). In effetti, è con le Akoya che si avviò, un centinaio di anni fa, l'”arte” di coltivazione delle perle. Negli anni Venti del secolo scorso, infatti, tre ricercatori in Giappone scoprirono come sviluppare con successo le perle nelle piccole ostriche Pinctada fucata, che i Nipponici chiamavano appunto Akoya. In poco tempo queste perle conquistarono un notevole prestigio e furono rese disponibili su scala commerciale in Europa e Stati Uniti.
Mentre il settore ha registrato i suoi alti e bassi, espandendo le aree di coltivazione fuori dal Giappone (principalmente in Cina), l’ultimo ventennio ha lanciato sfide drammatiche al comparto delle Akoya. Al declino della produzione, imputabile ad una serie di fattori negativi (calamità naturali, epidemie di molluschi), si è aggiunta la crescente concorrenza di altri tipi di perle, che hanno eroso quote di mercato significative.
Le perle “nere” coltivate di Tahiti sono prodotte, invece, dall’ostrica Pinctada margaritifera, che vive soprattutto nelle acque dei mari del Sud ed attorno alle isole della Polinesia francese. Incredibilmente, prima del 1980 molti ritenevano invendibili queste perle. Ma la loro variegata tavolozza di sfumature attrassero presto l’interesse di gioiellieri e consumatori, tanto da far lievitare la produzione a decine di tonnellate. Comunque, la sovrapproduzione ed la conseguente flessione dei prezzi ne hanno scalfito un po’ il potere di recente.
Alle perle di Tahiti si affiancano poi le perle dei Mari del Sud, per volume le meno rilevanti (solo 4,5 tonnellate annue), ma di valore stratosferico (150 milioni di dollari). Create dalle ostriche di varietà Pinctada maxima, possono essere bianche, argentate o grigie, se allevate nelle acque australiane, oppure gialle, dorate o crema, se coltivate nelle Filippine, in Indonesia e Myanmar. La loro produzione, seppur iniziata nei primi del ‘900 da operatori giapponesi, ha visto consolidarsi il successo solo a partire dagli anni Settanta. Attualmente è l’Australia il maggiore produttore mondiale in termini quantitativi.
Per quanto riguarda le perle dei Mari del Sud oggi i riflettori sono puntati soprattutto sugli esemplari dorati, la cui colorazione è resa possibile dalla speciale dieta seguita dalle ostriche, nonché da particolari condizioni meteorologiche e delle acque. Con una dimensione media di 12-14 mm (diametro), queste perle rappresentano un concentrato di bellezza assoluto a cui il mercato, malgrado i prezzi elevati dovuti anche alla scarsità dell’offerta, è molto sensibile.
Sotto il profilo dei volumi, il record spetta alle perle cinesi d’acqua dolce, la cui produzione si attesta sulle 500 tonnellate all’anno, per un valore di 70 milioni di dollari. Generate principalmente dalle ostriche di tipo Hyriopsis cumingi, consentono bassi costi di produzione (quindi prezzi di vendita al pubblico piuttosto contenuti) e, grazie all’enorme assortimento di colori, forme e dimensioni che presentano, hanno ottenuto uno speciale favore tra i consumatori, a discapito soprattutto delle Akoya.
Questo è il presente delle perle a livello mondiale. Ed il futuro?
L’avvenire si giocherà sempre di più su elementi come il design originale, la comunicazione, il partnering con la moda. In particolare, si prevede che a vincere la sfida competitiva saranno i produttori di perle e le imprese orafe più creativi, in grado di proporre forme innovative, colori inediti, dimensioni sempre maggiori. L’obiettivo, anche in questo contesto, sarà quello di “personalizzare” la perla, ovvero di renderla il più possibile rispondente alle esigenze di gusto e di moda del singolo cliente, il quale, secondo gli esperti di trend, preferirà sempre di più “mixare” gemme diverse nel medesimo gioiello, ad esempio rare perle dei Mari del Sud con più “banali” perle cinesi d’acqua dolce. Perché no?