Un club per salvare il Mondo
Il Club di Roma è un think tank, ovvero un laboratorio di idee, che opera a livello internazionale per promuovere iniziative d’impatto e soluzioni sostenibili per affrontare le sfide globali, in primis quella climatica, dedicando un impegno particolare nell’affrontare questioni complesse come la scarsità di risorse, la povertà, la crescita demografica, l’emancipazione femminile, la giustizia sociale. Insomma, una comunità di leader di pensiero, scienziati, economisti, uomini e donne d’affari, attivisti dei diritti civili, dirigenti pubblici internazionali e Capi di Stato di tutto il pianeta, che vogliono generare idee innovative e strategie di trasformazione per migliorare il mondo. Il nome del Club di Roma nasce dal fatto che la prima riunione si tenne appunto nella Capitale d’Italia, presso l’Accademia dei Lincei a Villa Farnesina. Ora la sede dell’associazione, che ha natura non-profit e non-governativa, è stata stabilita a Winterthur, in Svizzera.
Come è nato il Club viene spiegato sul suo sito in modo quasi aneddotico: “Su invito di Aurelio Peccei e Alexander King, circa 30 scienziati, economisti e industriali europei si riunirono a Roma per discutere di problemi globali. L’incontro fu un flop monumentale. King aveva chiesto a un collega dell’OCSE, l’astrofisico Erich Jantsch, di preparare un documento di base per la discussione. Era un saggio brillante, ma troppo astratto, complicato e controverso. A una cena successiva con un piccolo gruppo di partecipanti, concordarono di essere stati ‘troppo sciocchi, ingenui e impazienti’ e semplicemente di non aver capito abbastanza l’argomento. Decisero di trascorrere l’anno successivo educando se stessi e definendo questo circolo di discussione il ‘Club di Roma’”.
I primi fondi del Club furono investiti in una serie di rapporti sui “dilemmi dell’umanità” analizzati scientificamente nelle cause e nelle possibili soluzioni. Le ricerche furono affidate ad un gruppo di esperti del Massachusetts Institute of Technology (Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W. Behrens III), che misero a punto un modello computerizzato per prevedere le conseguenze ambientali ed economiche della crescita incontrollata della popolazione e della produzione industriale. Il più clamoroso risultato di questi studi fu la fondamentale pubblicazione nel 1972 del rapporto sui limiti alla crescita (The Limits to Growth. A Report for The Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind), che dando sostanza numerica alla critica del consumismo illimitato della società industriale, suscitò un vivace dibattito e la messa in discussione della sua validità, naturalmente, da parte di chi confidava in una crescita infinita.
Cosa sostiene questo rapporto e qual è la sua tesi? Ipotizzando che il trend di crescita continuasse invariato per quanto riguarda i livelli di popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali, l’umanità avrebbe raggiunto i limiti naturali dello sviluppo entro il secolo seguente. La soluzione proposta: modificare la direttrice di sviluppo e definire una condizione di equilibrio ambientale stabile nel tempo, consentendo a tutti di soddisfare i propri bisogni materiali ma in pratica riducendo al minimo il consumo di risorse e il tasso di sviluppo, perseguendo la “crescita zero”.
Fu breve il passaggio da qui all’accusa di voler cancellare lo sviluppo industriale sia in Occidente che nel Terzo Mondo e di propugnare il controllo “eugenetico” della popolazione. Solo pochi analisti degli equilibri tra disponibilità e impiego di risorse naturali seguitarono nei decenni successivi ad ispirare il proprio lavoro di indagine al teorema del MIT. Comunque, oltre 50 anni dopo quel Rapporto del Club di Roma, il dilemma che l’umanità è chiamata a sciogliere resta drammatico: cambiare rotta o rischiare la catastrofe, tanto più se si aggiunge a tutto ciò il problema dei mutamenti climatici, sempre più evidente.
Nel suo libro “Verso l’abisso” del 1969 Aurelio Peccei scriveva: “Consiglierei a chi leggerà o sfoglierà questo volume di soffermarsi a meditare sulla visione d’insieme della condizione umana e delle sue alternative nell’era tecnologica che esso tende a dare; e di stabilire nella sua mente un rapporto tra il presente turbolento o incerto che oggi viviamo e gli sviluppi potenziali, positivi o negativi, di cui esso è già gravido. Soltanto così, credo, ciascuno di noi può essere preparato a contribuire a che le scelte – che inevitabilmente si dovranno fare nei prossimi anni – siano fatte con intelligenza e con intendimenti veramente civili, tenendo conto degli effetti che essi avranno negli anni o decenni a venire per noi stessi e per le generazioni che da noi erediteranno i beni naturali e culturali che noi sapremo conservare o creare”. Peccei teorizzò quindi, in modo profetico, quello che sarebbe stato definito dalle Nazioni Unite “sviluppo sostenibile” nel 1987.
Oggi il Club di Roma è co-presieduto da Sandrine Dixson-Declève, esperta di cambiamento climatico e sviluppo sostenibile, e Paul Shrivastava, docente della Pennsylvania State University, profondo conoscitore dei temi legati alla sostenibilità. Del Club sono parte anche alcuni insigni italiani come l’economista Enrico Giovannini, già Ministro e già Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASViS), l’imprenditore del caffè Andrea Illy, già Presidente di Fondazione Altagamma, Ugo Bardi, docente di chimica ed esperto di economia ecologica, Gianfranco Bologna, Direttore scientifico del WWF Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, Alberto Gasparini, sociologo fondatore dell’International University Institute of the European Studies (IUIES).
Il merito principale di questo Club, che ad alcuni può sembrare elitario/apocalittico, resta quello di costringerci a riflettere sempre più in ottica di sostenibilità sociale, ambientale ed economica per vincere la crisi sistemica che minaccia il pianeta, pensando ad un futuro possibile e, in quanto possibile, più giusto e migliore per tutti.