Un personalissimo metodo
Ancora pochi giorni –fino al 10 giugno- e il “fenomeno” Marina Abramović chiuderà i battenti dopo oltre due mesi di emozioni donate al pubblico milanese.
Lei e il suo “metodo”, ultimo lavoro che fa seguito a molti altri ormai famosi in tutto il mondo.
Lei e la sua “performance art”, studiata dai critici con ammirazione e anche con timido sospetto.
Lei, con la sua pelle chiarissima che contrasta con i capelli corvini, misteriosa e conturbante.
Difficile, dopo averla vista da vicino, restare indifferenti a tale personalità. Un incrocio di occhi, e la storia incomincia. “L’arte” incomincia. Incredibilmente!!!!!!!!! Il corpo che si fa pensiero e il pensiero che prende corpo.
“La mostra al PAC è un’importante occasione per approfondire il linguaggio di Marina Abramović: un linguaggio di metafore, di silenzi, di discontinuità, di sentimenti opposti, straordinariamente ambivalente e segreto, che si fa anatomia, che si fa corpo e, per questo, è altro e DIFFERENTE da qualsiasi altra proposta”.
Così descrive l’evento il direttore del Padiglione di Arte Contemporanea e così è esattamente quello che si prova entrando dentro questa “situazione”. Il pubblico che diventa performance e che, da osservatore, si trasforma in “recitante”-ma muto- protagonista. Assolutamente indispensabile per portare a compimento l’opera. In piedi, sdraiato, seduto, “appollaiato” per scrutare. Esso stesso canocchiale. L’identità di ciascuno quasi sparisce, sbiadisce, avvolta nei bianchi camici simili a vecchi grembiuli da farmacista che, nel ricoprire, omologano tutti…….. I visi si fanno via via seri e molto concentrati, al limite della caricatura di se stessi.
“Facce che non erano facce ma costellazioni di linee e di luce”, ha detto qualcuno.
E viene in mente quel passo di Borges in cui si legge che …..
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto…”
Ebbene, quante realtà simili a queste avrà percepito e “portato” dentro di sé una donna che, due anni fa, al MoMa di NewYork, ha trascorso ben 736 ore -736!- ferma e statica su una sedia rigida fissando dritta negli occhi in assoluto silenzio ogni singolo componente del suo pubblico numerosissimo -1400 astanti!- che aspettava pazientemente il proprio turno per accomodarsi di fronte a lei? Per “sperimentare” lei? E tutto ciò in modo reciproco. In uno scambio continuo di attente percezioni. Un’intimità profonda, vien da dire. Che ferma lo spazio e il tempo. L’arte di vedere oltre proprio perché le viene concesso il modo di farlo. E la possibilità di arrivarci. Tutto fuori, tutto via –iPod, computer, cellulari, macchine fotografiche, orologi. Tutto “sospeso” –in un ambiguo, strano e altalenante amore/odio per la tecnologia. Cuffie isolanti, al loro posto. E fiducia nell’abbandonarsi, nel lasciarsi andare a tale prova. Tutt’intorno le fotografie e i video delle sue precedenti “imprese”, a testimoniarne la lunga, originale e peculiare ricerca espressiva.
A motivare e sostenere gli “attori” di questa immersione nei “sensi diversamente percepiti”, oltre a lei –presente solo nei primissimi giorni della mostra-, un gruppo di studenti dell’Accademia di Brera preparati accuratamente per essere preposti a ciò. Una pignoleria di sguardo degna di Stanley Kubrick, un’osservazione estetica vagamente ossessiva. Ma proprio per questo, così lontana dall’essere insignificante e banale. Discutibile, sicuramente, ma come tutte le cose che ci interrogano e ci smuovono.
“Il movimento nel mezzo del silenzio.
Il silenzio nel mezzo del movimento.
All’inizio della mia vita ho lavorato molto.
Ho continuato a fare viaggi.
Non avevo pace..
Ma da quando ho il mio tempio, i visitatori vengono a trovarmi.
È fondamentale essere pubblicamente disponibili in entrambe le fasi.
È un principio onnicomprensivo, in cui anche le più piccole cose possono entrare.
Si può arrivare a una condizione mentale in cui si può dare ossigeno alla gente.
O, se si tratta di arte, allo spettatore.” (Monaco anonimo)
Un cammino piuttosto tortuoso, quello dell’altera artista, percorso da deviazioni stravaganti quasi macabre ma anche da sentieri romantici inimitabili; i tagli auto-procurati che hanno lasciato ferite visibili e ferite interiori, i serpenti e gli scheletri a farle da “abito”, l’addio a un suo grande amore dopo una “passeggiata” di 2500 chilometri lungo la Grande Muraglia per incontrarlo e porre fine alla loro storia…….. E abbiamo sicuramente da aspettarcene ancora delle belle……
Qui accanto, il trailer del film-documentario diretto da Giada Colagrande. Realizzazione resa possibile anche grazie al contributo della Fondazione Furla -già fautrice del party inaugurale, incontro tra arte, moda e design-, a cui Abramović ha fatto da madrina al Premio Furla 2009.
Compito del film, esso stesso parte del “metodo”, raccontare la genesi del progetto, il suo svolgimento e la trasformazione fisica e mentale dei partecipanti.
Avvicinatevi ad esso con discrezione, e con giusta curiosità……
Buona (condi)visione!
Premetto che non ho visto la mostra. Ahimé l’ho persa pur leggendo critiche e commenti. Performance di dinamica mentale, tanto in voga negli anni ottanta e ora dimenticata.
Dal trattato alla tolleranza di Voltaire ricordo un pezzo della “Preghiera a Dio” che dice:-…Fà sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione…-.
Allora interpretando il desiderio di Abramovic di annullare la scultura corpo e di rendere la mente sostanza percepibile come materia, non posso che dispiacermi per non aver partecipato.
Questa è una contraddizione che caratterizza le sfide dell’artista: un corpo e un viso bellissimi, aiutati, ma bellissimi che testimoniano l’ardita sfida di una contraddddizione del nostro tempo che va ben al di là di quel “avere o essere” del passato.