Un’americana per DESA NINETEENSEVENTYTWO: intervista a Tonya Hawkes
C’era un selezionato parterre di giornalisti e personaggi del jet set internazionale alla presentazione delle proposte A/I 2016-17 di DESA NINETEENSEVENTYTWO; c’era Suzy Menkes , direttore delle testate online di VOGUE – una tra le più influenti donne al mondo nel giornalismo di moda; c’era Alessandro Modenese, per VOGUE America , c’era Antonella Antonelli -rispettabilissimo direttore di Marie Claire ; c’era anche il presidente della camera della moda, Carlo Capasa, e molte altre celebri presenze.
Una collezione ordinatamente disposta nel Penthouse del Carlton Hotel Baglioni di Milano, una proposta fatta di linee pulite ed eleganti, di pannelli geometrici, tecnicismi grafici e dettagli mutuati al mondo equestre …. una collezione dipinta nei colori del deserto e della foresta: un bronzo che tira al senape, un intenso color zucca, un sabbia accostato al nero, un rassicurante verde inglese, un ibrido indaco ….
Con noi di IMORE, c’è la designer Tonya Hawkes, al timone della direzione creativa del Brand, per una chiacchierata su di sé.
Tonya, sei originaria di Whashington… giovanissima hai trasmigrato a New York dove hai frequentato il Fashion Institute of Technology, una delle scuole più prestigiose al mondo in materia di preparazione alle carriere artistiche .
“In realtà la mia prima formazione è stata in una scuola di moda a Seattle. Ai tempi, spesso, dopo aver seguito una lezione di disegno mi infilavo in sartoria. I miei colleghi e gli insegnanti restavano stupiti nel trovarmi lì -luogo per me carico di ricchezze inenarrabili- e domandavano: “ Tonya, cosa ci fai tu qui? ” in realtà ho sempre trovato che fosse indispensabile conoscere il processo di produzione delle cose, saperle realizzare autonomamente dall’inizio alla fine, che poi, tradotto, significa essere completi.Successivamente con l’esperienza da Donna Karen ho avvertito la necessità di consolidare le mie competenze, imparare nuove tecniche di lavoro e divenire più competitiva sul mercato. Così ho scelto il FIT. Il FIT mi ha dato una formazione professionale solida ed esaustiva”.
Cosa ti ha indirizzato verso la scelta di diventare designer di accessorio?
“Le persone”.
“Le persone che realizzano scarpe o borse sono più approcciabili rispetto a chi realizza abiti. Non saprei dire bene perché, credo che la ragione sia che hanno maggior contatto con la materia, con ciò che è tattile, con l’uso delle mani; ciò le rende a mio avviso più intense, più sensibili, più passionali. Poi ho scoperto che realizzando accessori posso sviluppare quella tridimensionalità che tanto amo, nasco come stilista di couture ed è naturale per me essere portata a giocare coi volumi. Non solo, per realizzare gli accessori posso usare un’infinita quantità di materiali: metallo, plastica, legno, sughero: è un sperimentazione entusiasmante e continua”.
Hai lavorato per il Brand americano Donna Karan, per la casa produttrice di borse Furla e per Sergio Rossi , azienda calzaturiera di prima linea. Hai una tua società di consulenza a Bologna, un tuo omonimo Brand di successo. Da poco, sei approdata presso il marchio di pelletteria di lusso DESA NINETEENSEVENTYTWO, cosa vuoi raccontarci di queste esperienze?
“Da Donna Karan, nel ruolo di designer director, oltre agli accessori curavo la linea di abbigliamento, furono anni di lavoro intenso e formativo, utilissimi per la costruzione di un mio know how personale. Quando arrivai da Furla era la mia prima volta come direttrice di un’azienda di soli accessori. Investii sei mesi ad approfondire il DNA di questa ditta, a capire come poter tirar fuori il meglio di me per metterlo a servizio dell’azienda.
Devi infatti sapere che quando una società assume un direttore creativo, lo fa perché avverte la necessità di un cambiamento. Ha dunque un’aspettativa molto alta; e molto grande è la fiducia che ripone nella persona che sceglie. Fu con questa consapevolezza nell’animo che stravolsi completamente l’imprinting precedente del marchio; all’’inaugurazione della collezione ci fu la fila di persone a complimentarsi per l’eccellente risultato raggiunto: in soli tre anni triplicammo il fatturato. In generale nel mio lavoro cerco sempre di essere molto originale, di apportare un qualcosa di diverso rispetto a ciò che preesiste.
Da Sergio Rossi rimasi per tre anni e mezzo , l’azienda ha un know how incredibile. Lì ebbi l’opportunità di imparare a realizzare le scarpe sopra una forma cosa che non avevo mai fatto prima. Il loro modo di lavorare si amalgamava stupendamente con la mia natura. Sono “tattile” nel senso che ho bisogno di modellare con le mani; quando lavoro uso molto carta e pongo, strumenti che mi consentono di vedere l’effetto reale di ciò che ho in mente. Disegno anche, ma ho necessità di plasmare.
Nel corso di tutto questo tempo ho stratificato un mio background; ho memoria pari a quella di un elefante, ricordo tutti i tagli, ogni tipo di prodotto ha infatti un metodo di lavorazione diverso. Poi forte delle mie acquisizioni ho creato un mio marchio e una mia società di consulenza dove lavoro con passione assieme alla mai squadra.
Da DESA NINETEENSEVENTYTWO feci un colloquio qualche anno fa; all’epoca cercavano un profilo diverso, ci fu però un buon feeling e si sono ricordati di me,così mi hanno ricercata. Partecipare a questo nuovo progetto è stato entusiasmante. Da bambina avevo due cavalli, dal loro ricordo è nata l’ ultima collezione disegnata ”.
Secondo la tua esperienza, qual‘è la differenza, in termini di approccio al lavoro tra un’azienda americana e un’azienda Italiana?
“L’azienda americana lavora molto in squadra, i ruoli però non si mischiano mai. C’è una gerarchia molto rigida: è solo il capo che adotta decisioni e ciò che stabilisce si rispetta.In America si fa sempre riferimento alla persona gerarchicamente immediatamente superiore; di conseguenza, si interfaccia con il vertice solo chi è immediatamente sotto di lui. In Italia, al contrario, c’è mescolanza di funzioni e si danno con naturalezza opinioni su materie di non propria competenza. Questo atteggiamento genera due effetti: da un lato una maggiore apertura all’ascolto, dall’altro gran confusione e mancanza di rispetto per il lavoro altrui”.
Come si sviluppa il processo di preparazione di una collezione?
“Ogni stagione ha il suo calendario: si inizia con un periodo intenso di ricerca, periodo in cui devi lasciare che la tua mente vada dove le piace, cercando, al contempo, di intercettare cosa può essere “giusto”. Una volta scovato l’elemento d’ ispirazione, (può trattarsi di qualsiasi cosa : dalla stampante del negozio di computer sotto casa ad una vecchia borsa vintage ad un elemento naturale …. eccetera ) subentra il processo di interiorizzazione, che coincide con l’ascolto silente delle emozioni che quel qualcosa ti ha suscitato. Terminata anche questa fase, l’oggetto si disegna nella tua mente; allora cominci a considerare le cromie che ben si adattano alla tua idea e, a loro volta, le cromie che ben si adattano tra loro. Può anche capitare, che dopo questo lavoro scopri che la tua non è un’idea originale. Allora devi ricominciare tutto d’accapo. Viceversa, se tutto ha seguito il suo corso senza blocchi, si prepara una scheda tecnica con su: disegno, materiali, tempi di predisposizione eccetera; e poi viene la parte più bella, quella in cui il tuo pensiero prende forma: è la realizzazione del prototipo! tutto questo ciclo dura all’incirca tre mesi; segue il momento del merchandising, e cosi via …”
Il tuo omonimo Brand ha ricevuto molti riconoscimenti ottenendo servizi e menzioni sulle riviste di moda più autorevoli al mondo, da VOGUE, ad Elle, a Marie Claire. Tra duecento anni, cosa vorresti che venisse ricordato di te?
“Sarei felice se si pensasse a me come a quella stilista americana dallo stile definito.
Sarebbe bello poter essere uno stimolo per le generazioni future; trapassare la mia energia in un piccolo spazio della loro anima. Sarebbe bello riuscire a lasciare traccia”.