Uomini a colori
Nella lotta pirandelliana fra essere qualcuno o nessuno, nella dialettica fra l’uno e i molti, la moda maschile che ha appena sfilato a Milano appare un po’ indecisa. In generale, tuttavia, sembra essersi leggermente ravvivata la facoltà mitopoietica del sistema, che temevo sbiadita, ovvero la capacità della moda italiana di costruire il mito di se stessa.
La tendenza che è parsa dominare le passerelle è quella del colore.
Anzi, ho avuto l’impressione che alcuni stilisti, come in un quadro di Alexej von Jawlensky, se ne siano serviti per costruire i contorni dell’immagine e conferirle forza emotiva.
Si vedano l’allegra informalità di Ermenegildo Zegna o l’ardita ricerca identitaria dell’uomo di Costume National o il glamour rutilante di Dolce&Gabbana. Il duo siciliano, però, sembra anche aver riscoperto la passione per la preziosità che deriva dalla cura sartoriale dei dettagli, dai ricami persino, nonché dai materiali raffinati, dal velluto allo struzzo, che fanno un po’ dimenticare l’ormai scontata audacia dei jeans strappati. E se Trussardi 1911 si fa ispirare dal Far West, senza trascurare l’armonia delle forme, Armani resta fedele ai suoi grigi fluidi, ma rigorosi, talvolta risvegliati da improvvise apparizioni di tinte calde, se non proprio chiassose. Anche da Prada – una delle collezioni più apprezzate la sua, che ha messo in secondo piano i pour parler sui continui rimandi della quotazione in Borsa – si è visto molto grigio urbano, mentre le sue camicie a vivo sono già un must per i fashion addict.
Il ritorno in passerella della scarpa classica, poi, di pari passo con la trionfale conferma delle sneaker, suona come un altro segnale di serietà da parte delle maison, che saggiamente sono rientrate nei propri ranghi. E chissà, d’altro canto, se i pantaloni col risvolto o stretti&corti, su cui qualche stilista ha insistito un po’ troppo, sono proprio quello che i buyer intendono per novità…
Ragionando più a freddo, ci pare di poter affermare che nella moda al concetto di lusso – complice la crisi economica, è pleonastico rimarcarlo – si va sostituendo quello di qualità, come ha avuto modo di dichiarare al Financial Times pure Bernard Arnault, timoniere del gruppo Lvmh.
Quanto ai conti, pare che, tutto sommato, non vadano così male, se è vero che il fatturato della moda maschile nel 2008 è stato di 9,3 miliardi di euro (all’incirca sui livelli dell’anno precedente) e l’export è salito a 5,283 miliardi, registrando un +2,4%. Alcune aziende, così come alcuni marchi – si sa – sono destinati a scomparire (è ancora vivo il ricordo della fine di Lacroix o di Branquinho, l’uno concentrato solo sulla couture, l’altro sul pret-à-porter distribuito tramite boutique multi-brand), ma chi alla fine riuscirà a sopravvivere, dopo aver ridotto i costi all’osso e tagliato i listini, senza nel contempo alterare la qualità produttiva, ne uscirà più forte e maturo, degno di far fronte alla nuova tipologia del cliente, ovvero un consumatore sempre più sensibile alle cose concrete, informato e responsabile, alla ricerca dei valori dell’eccellenza ed attento ai particolari. In breve, desideroso di innovazione e stile ai prezzi giusti.
Addio eccessi e bentornata intelligenza!